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Scritto da nel Internazionale, Numero 80 - 1 Giugno 2011 | 0 commenti

Il punto sulla primavera araba

Il clamore da prima pagina suscitato dalle rivolte in Maghreb e Medio Oriente si è (già) trasformato in una scontata notizia di secondo piano sui media nazionali e internazionali. Eppure persiste la guerra civile in Libia con la partecipazione «aerea» della NATO, in Siria la rivolta non si placa, in Yemen il dittatore Saleh è in procinto di imitare il collega Gheddafi trascinando nel caos il più povero Paese dell'area mentre Tunisia ed Egitto continuano la loro strada verso il cambiamento con grande speranza ma notevoli difficoltà, e senza l'aiuto dell'Unione Europea.

In Libia, quando la rivolta si trasformava in guerra civile e i primi aerei militari francesi ed inglesi si alzavano in volo per bombardare le postazioni dell'esercito di Gheddafi, l'evoluzione meno auspicabile del conflitto era una sostanziale fase di stallo; situazione che si è puntualmente verificata. I cosiddetti ribelli non hanno la forza necessaria per avere la meglio sull'esercito del colonnello e, stando così le cose, francamente è facile prevedere che non la avranno neppure in futuro. Tuttavia non si hanno notizie dettagliate sulle (eventuali) battaglie in corso.

La Nato ha deciso di prolungare per altri 90 giorni la missione militare in Libia (Unified Protector) per inviare «un chiaro messaggio al colonnello Muammar Gheddafi», come ha dichiarato il segretario generale dell'Alleanza atlantica Anders Fogh Rasmussen. Non è superfluo ricordare che tale operazione della Nato è legittimata da un'interpretazione a dir poco forzata della risoluzione 1993 del Consiglio di sicurezza dell'ONU.

L'incertezza sullo stato delle cose a Tripoli è data inoltre dal mistero sulla sorte di Gheddafi: pare sia ancora vivo, ma fisicamente non si riesce a localizzare con precisione. Insomma, la famosa «fog of war» per quel che riguarda il regime d'informazione durante le guerre, in questo caso specifico è particolarmente fitta ed impedisce un'analisi oggettiva della situazione.

A Damasco le richieste dei siriani sono chiare: liberazione dei detenuti politici, fine della censura sugli organi di stampa, abolizione dell'articolo 8 della Costituzione secondo cui il partito Baath «dirige lo Stato e la società» e l'abolizione dello stato d'emergenza, in vigore da quando lo stesso partito Baath si è impadronito del potere nel 1963. La risposta di Bashar Al Assad non si è fatta attendere ed è stata, e continua ad esserlo, di natura puramente repressiva. Secondo l'opinione di alcuni analisti, il regime potrebbe pagare questa eccessiva brutalità.

Per il momento, però, la reazione rabbiosa della famiglia al potere non ha avuto la giusta considerazione da parte della comunità internazionale: un migliaio di morti e oltre diecimila prigionieri nell'arco di tre mesi sono ancora troppo pochi per far prendere seri provvedimenti (le sanzioni approvate finora non lo sono) ai leader politici mondiali, preoccupati dal delicato equilibrio geopolitico dell'area mediorientale. Tuttavia qualcosa si muove: il Governo americano ha definito la posizione del regime siriano sempre meno difendibile, mentre gli oppositori al partito Baath residenti all'estero, rigettata l'amnistia proposta da Assad per tutti i prigionieri politici, si sono riuniti nella località turistica turca di Antalya per cercare di eleggere un consiglio provvisorio che possa avere il duplice ruolo di punto di riferimento per l'opposizione all'interno del Paese e di unico interlocutore per la comunità internazionale.

In Yemen il rischio di una guerra civile è alto a causa della testardaggine di Ali Abdullah Saleh, che ha rifiutato la proposta elaborata dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) di porre fine alle violenze che hanno causato, in tre mesi, centinaia di morti. L'immunità per se stesso e per i suoi familiari offerta in cambio delle semplici dimissioni è stata giudicata un complotto dal dittatore yemenita. Gli scontri sempre più sanguinosi che si stanno susseguendo a Sana'a non sono però paragonabili a quelli avvenuti in Tunisia o Egitto, perché diversi sono gli attori in campo. Più che contro giovani attivisti che rivendicano pane, lavoro e libertà, il clan Saleh sta scatenando un violento attacco contro Sadiq al-Ahmar, uno dei principali leader tribali, che si è schierato contro il presidente e che potrebbe essere uno dei possibili candidati a guidare la transizione verso un regime democratico dopo 33 anni di autocrazia. L'odio personale tra i clan dei Saleh e quello degli al-Ahmar rischia ora di innescare una serie di rivalità tribali che hanno ben pochi legami con l'iniziale protesta di carattere politico, sociale ed economico.

Non si può dunque affermare che la «primavera araba» sia stata un fuoco di paglia. In Tunisia ed Egitto se da un lato la voglia di rivalsa dei giovani rivoluzionari è talmente consistente da poter essere quasi un ostacolo alla rifondazione di questi due Paesi, dall'altro questa energia può impedire che emergano soluzioni autoritarie vecchio stampo. Inoltre, in tutti i Paesi del Maghreb e del Medio Oriente solo sfiorati dalle violenze, l'ondata rivoluzionaria ha indotto i governanti a prendere delle misure economiche e sociali (non concretamente politiche purtroppo) per placare l'ira della popolazione ed evitare che la protesta diventi seriamente minacciosa per lo status quo. Tra queste, aumenti salariali per i dipendenti pubblici, stanziamento di fondi per investimenti in infrastrutture, diminuzione del prezzo dei generi alimentari di prima necessità e del carburante. Particolarmente curioso, infine, è il provvedimento deciso dall'emiro del Kuwait per tranquillizzare il suo popolo: una donazione del governo di 2647 euro una tantum per ogni cittadino!

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