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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 77 - 1 Marzo 2011 | 0 commenti

V per Vergogna

La parola “vergogna” è molto ricorrente nel lessico attuale. Non c'è rassegna stampa, telegiornale, talk show, intervista, programma televisivo o radiofonico in cui questo termine non compaia quotidianamente, in particolar modo nel presente contesto di grave inasprimento dello scontro politico, come esortazione agli avversari, o ritenuti tali, a vergognarsi (“Si vergogni!”, “Vergogna!”). Ma ciò che colpisce di più è il proliferare di affermazioni del tipo “non ho niente di cui vergognarmi” oppure “non provo nessuna vergogna”, dalle quali si percepisce la volontà di rivendicare la propria estraneità ad un sentimento dal sapore negativo. Sembra, infatti, che la vergogna sia diventata un sentimento inaccettabile e che non va provato: paradossalmente ci si vergogna di vergognarsi, perché la vergogna è lo stigma dell'insuccesso, del fallimento, e della frustrazione.

Ma è davvero un sentimento o un valore negativo la vergogna?

Le radici etimologiche della parola conducono al latino verecundia, la cui radice vereor rimanda anche al significato di timore religioso e rispetto. Ma anche nell'antica Grecia il concetto di vergogna, aidéomai (= ho vergogna), era inscindibile dalla nozione di onore e di rispetto. Il giapponese curiosamente ripropone la stessa associazione di idee. È evidente, quindi, che i concetti di riferimento a quello di “vergogna” sono legati a valori positivi.
Ma anche la letteratura propone questo accostamento in maniera molto interessante. Spesso, infatti, la vergogna è il sentimento che muove le azioni del protagonista o dell'eroe: in Shakespeare (nelle cui opere il termine, tra l'altro, ricorre molto frequentemente) le azioni di Otello e di Antonio, personaggi positivi nell'opera, sono guidate dalla vergogna; al contrario, non lo sono quelle di Iago, il quale non a caso incarna un personaggio negativo. Ne I sommersi e i salvati di Levi, sono le vittime e i 'non colpevoli' della vicenda a provare vergogna per le atrocità commesse dai nazisti: i soldati russi che liberano i prigionieri dei campi di concentramento e i prigionieri stessi.
Nel passato, quindi, la vergogna è sempre stata un sentimento associato alla rettitudine, e vergognarsi ha sempre avuto una connotazione positiva.
È naturale che questa conclusione contrasti con la percezione che tutti hanno di questo sentimento, la cui gravezza risulta insopportabile e genera rifiuto. Ma il nodo ben presto si scioglie se si guarda con occhio attento alla sua natura. Proprio come il dolore, per quanto spiacevole, la vergogna è un segnale: così come il primo, manifestandosi, ci permette di rilevare uno stato patologico e di contrastarlo, la seconda ci segnala la violazione di un codice etico. La vergogna è, in altri termini, la sanzione morale per la violazione di una norma sociale che – si suppone – presidia il buon funzionamento di una società. L'incapacità di provare vergogna, al contrario, determina l'impossibilità di rilevare la “patologia” sociale e quindi di reprimere comportamenti dannosi per quella società.

La vergogna, individuale e collettiva, ha dunque una funzione sociale molto importante, in quanto si atteggia ad elemento fondativo di tutte le aggregazioni sociali.
Ma non solo. C'è di più: la vergogna è prima di tutto un sentimento sociale. Infatti, la si apprende, non è innata come lo sono rabbia e paura, e a differenza di queste ultime, essa è strettamente legata ai valori e ai comportamenti della società di cui si fa parte. La vergogna è un sentimento generato dallo sguardo dell'altro. Chi si vergogna, in un certo senso, “collude” con chi vuole farlo vergognare: ovvero, ne accetta le ragioni e le motivazioni.

L'aspetto fortemente sociale di questo sentimento si evidenzia anche nel meccanismo di identificazione (generato dell'interiorizzazione di una norma sociale o etica) che può portare a vergognarci anche per azioni altrui di cui, tuttavia, non siamo responsabili. Così, ad esempio, osserva Marco Belpoliti nel saggio Senza vergogna, dove, commentando proprio l'opera di Primo Levi, afferma che chi prova vergogna è il giusto e non l'ingiusto, chi assiste impotente al male, non chi lo commette. Il sentimento di vergogna nasce, infatti, anche per la colpa dell'altro, per il solo fatto che questa è stata commessa da un proprio simile (a questo proposito, Belpoliti molto sottilmente osserva anche che ci si può vergognare del proprio Paese solo se ci si riconosce in lui).

La vergogna è certamente anche un sentimento fortemente individuale, perché fa sì che noi vediamo noi stessi come se fossero gli altri a vederci. È il sentimento dell'auto-consapevolezza, in quanto prima di poter riconoscere la sanzione da parte degli altri, implica un giudizio su se stessi. Se si interiorizza una norma sociale, la sua infrazione viene percepita come violazione di un codice interiore, prima che di quello sociale. La vergogna richiede, quindi, un avvicinamento a se stessi, un' “inaudita, spaventosa prossimità dell'uomo con se stesso” (Belpoliti). Per questo, forse, è impraticabile a molti.

In una società in cui proliferano mezzi che rimandano e moltiplicano la nostra immagine e quella altrui come mille specchi, ci si aspetta che la vergogna sia un sentimento di grande attualità e con il quale si ha “confidenza”. E, invece, mai come adesso la vergogna sembra essere un elemento tanto assente dalla nostra vita sociale, soprattutto in contesti in cui, al contrario, sarebbe auspicabile.

Per questo motivo riproponiamo una vecchia, ma attualissima e utilissima, iniziativa di Cuore, che negli anni '90 aveva dedicato una rubrica alla Vergogna Equa e Solidale: vergogna da distribuire a chi non ne ha, perché vergognarsi per gli altri si rende necessario come un intervento umanitario per riportare giustizia e benessere nella società.

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