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Scritto da nel Arte e Spettacolo, Numero 75 - 1 Dicembre 2010 | 0 commenti

Noi credevamo, un regalo di Stato

Il regalo che l'Italia si è voluta fare per il suo centocinquantesimo compleanno si intitola “Noi credevamo”, ed è l'ultimo film del regista partenopeo Mario Martone, tratto dal romanzo di Anna Banti. Prodotto da Palomar con Rai Cinema e Rai Fiction, coprodotto con Les Films d'Ici e Arte France Cinéma, “Noi credevamo”, nelle sue quasi tre ore di film, soddisfa tutte le aspettative di una committenza per così dire “ufficiale”, dove il piglio celebrativo viene sostenuto dalla struttura narrativa della fiction.

La trama, che vede il dipanarsi delle vicende di tre amici cilentani nell'arco del trentennio che va dalla repressione borbonica dei moti del 1828 al ferimento di Garibaldi in Aspromonte del 1862, affronta le tappe salienti del Risorgimento viste dalla prospettiva di Domenico (ispirato a Domenico Lopresti), nobile, mazziniano convinto, dei tre amici il più idealista, inizialmente spinto dalla lieta furia dei vent'anni a tessere le trame insurrezionali tra Torino e Parigi; poi, in carcere, testimone insofferente dei compromessi tra prigionieri monarchici e repubblicani; infine, garibaldino occasionale, fuori età, deluso dal regime di terrore giustizialista e di dialetto piemontese instaurato dai Savoia, accaniti ad unificare un'Italia dove non è più necessario produrre ricchezza, dove già ai suoi albori resta da dividere solo la miseria. Memorabile la sua frase, in risposta ad un giovane che gli domanda se non è troppo vecchio per combattere, «la guerra la devono fare i vecchi, tanto, se muoiono, chi se ne importa?». Angelo (ispirato a Giuseppe Andrea Pieri), nobile anch'egli, mazziniano integralista e per ciò violento, come già il suo temperamento che lo porta, sin da giovane, a corrompere la propria coscienza con un omicidio inutile, dal quale fuggirà una vita, prima dalle sue terre poi da se stesso, fino ad intraprendere una non meglio definita carriera da dinamitardo; ridicolo, nel dolore che il tempo gli scava sotto gli occhi; sublime, nel respingere il viatico e rassegnato all'inferno, quando, prima di essere condotto alla ghigliottina per aver attentato alla vita di Napoleone III assieme a Felice Orsini, domanda al sacerdote «perché il Papa non rinuncia al potere temporale?». Salvatore (ispirato ad Antonio Sciandra), l'amico popolano, mazziniano fiero e concreto, sebbene alle prese con le prosaiche contingenze della sua condizione, dal padre che tenta di ridestarlo con le maniere forti alla sposa subito gravida, eppur commosso dall'incontro con Giuseppe Mazzini, dal quale riceve l'ordine di fornire ad Antonio Gallenga, vile mitomane, il pugnale per assassinare Carlo Alberto.
Intorno alle vicende di questi tre personaggi, ruota la ricca giostra dei cammei, dove Mazzini è l'obiquo Tony Servillo, Francesco Crispi è Luca Zingaretti, Carlo Poerio è Renato Carpentieri, Antonio Gallenga vecchio è Luca Barbareschi, Cristina di Belgiojoso vecchia è Anna Bonaiuto, Felice Orsini è Guido Caprino.

Ci risiamo, è il consolidato espediente dell'affresco corale, che vuole in campo tutte le maschere forti del cinema italiano; l'anno scorso, quando l'affresco corale era regionale, o meglio siciliano (parliamo del «Baarìa» di Giuseppe Tornatore), scesero in campo tutte le maschere forti della Sicilia; questa volta è invece nazionale, e, senza nulla togliere ai vari Zingaretti Carpentieri Servillo e colleghi, ci si è potuti sconsolare nel vedere come il panorama nazionale non presenti più certe maschere, quelle maschere forgiatesi nella fucina dell'avanspettacolo, maschere come quelle che seppe far vivere Mario Monicelli (pace all'anima sua, dato che di un suicida i cattolici non hanno pietà).
Circa le scale antincendio di metallo zincato, la cancellata da garage e lo scheletro di cemento che non si possono fare a meno di notare in quanto elementi fuori contesto, e che qualche folle ha inteso quali “errori cinematografici”, ci piace pensare, soprattutto per lo scheletro di cemento, che Martone abbia voluto suggerire dei confronti, o meglio, dei resoconti del tipo “a cosa hanno portato tutti questi stenti, sacrifici e stragi, se non a un governo che risolve le crisi economiche con un condono edilizio che, oltre a deturpare il paesaggio, fornisce le coperture alle associazioni a delinquere?”. O semplicemente invitarci a constatare che questo paese è come una casa non finita e con le fondamenta abusive.
Ma, intendiamoci, non sono questi i difetti del film, che poi questo film difetti non ne ha perché non ne può avere: Martone non ha voluto rischiare, c'erano in ballo i 150 anni di unità d'Italia tondi tondi, e poi c'erano in ballo i suoi di cinquant'anni, che per un mestiere come il regista, dove la vita comincia mediamente a trent'anni, è l'età “giusta”. Certo non rimarrà contento chi va al cinema aspettando di vedere il Martone di «Morte di un matematico napoletano», capace di donare grazia all'anima impastata di Renato Caccioppoli, oggi noto solo per aver bocciato ad un esame Luciano De Crescenzo scagliando via il libretto. Ne il Martone dell' «Amore molesto» o de «L'odore del sangue». Le aspettative che non verranno deluse saranno invece quelle di chi, nei film storici, cerca nelle inquadrature la composizione, la luce, le pose e i colori dei pittori di allora, da Tommaso Minardi a Giacomo Favretto, passando per la Scuola di Posillipo. Ma quanto pesa ancora oggi la retorica tradizionale del film “storico”? Possibile che da Luchino Visconti in poi gli unici a prendersi delle licenze artistiche, a non aver timore di destare i morti e di provocare i vivi, sono stati i fratelli Taviani con «Allonsanfan» e Stanley Kubrick con “Barry Lyndon”?

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