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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 75 - 1 Dicembre 2010 | 0 commenti

L'Italia unita, e gli italiani?

I manifesti, la retorica e i mass media ce lo ricordano: 150 anni fa avveniva l'unità d'Italia, figlia di parto travagliato ed estenuante.


Il concetto di Italia esisteva da molti secoli, e molti intellettuali si sono interrogati riguardo una lingua nazionale ben prima dell'epoca risorgimentale.
Questo 1860 sembra quindi l'happy ending di una storia lunga secoli, la fine delle divisioni in Guelfi e Ghibellini, le parti che si riuniscono nell'intero.

Ma è proprio così?

Fin dall'inizio si è parlato di stato a doppia velocità, attanagliato da una questione meridionale che ancora non si accenna a risolversi: il Sud Italia figlio di un potere scellerato e miope, che considerava quelle terre una colonia da sfruttare al ribasso. Gli incentivi statali, la banca del mezzogiorno, gli aiuti e la sensibilizzazione pubblica non sono serviti a uniformare lo sviluppo, e con il passare del tempo la divisione è aumentata, portando migrazioni interne e disagio. Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli ci parla di un meridione agli albori della civiltà, dove la stregoneria, il folklore e la povertà non hanno ancora lasciato il passo allo sviluppo sociale. Ovvio quindi il radicalizzarsi delle posizioni, le accuse reciproche che disegnano un nord sfruttatore e un sud parassita, la nascita di movimenti politici che spaccano l'Italia in due.

La politica italiana non ha mai smarrito la polarizzazione tra destra e sinistra, che in Italia ha avuto effetti nefasti. Si è smarrita la concezione di giusto o sbagliato, e ogni affermazione sociale o politica viene vagliata come «di destra» o «di sinistra». In questa concezione ultras della politica, essere in disaccordo con le scelte del governo o le strategie dell'opposizione vuol dire essere un nemico. Le certezze assolute vengono stinte in una dimensione biecamente relativista, dove a pagare è la verità.

Il ruolo dei media è quello dell'obiettività e dell'analisi critica. La lezione delle grandi firme del passato, come Montanelli o la Fallaci, è che nessuno può essere assolutamente neutrale, ma deve essere garante di imparzialità di giudizio e analisi critica, cosa più che rara al giorno d'oggi.

Ma in fondo le divisioni tendono a mutare, trovare nuovi nomi e nuovi appigli, dimenticando le proprie origini ma ritrovando nuova lingua vitale. Il Gattopardo disegna il trapasso dall'aristocrazia al potere statale, che rimane in perenne contrapposizione con le classi povere, vittime di divisioni che non hanno la forza di combattere.

Tancredi, nipote del principe di Salina e simbolo del potere aristocratico, reinventandosi mantiene intatti i propri privilegi, consapevole che bisogna che tutto cambi affinché tutto rimanga com'è. Ma siamo proprio sicuri della nostra unità?

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