Federalismo competitivo? Cosa (non) imparare dalla Germania
L'idea del federalismo competitivo emerse in Germania nella seconda metà degli anni '90, quando le conseguenze economiche e sociali dell'unificazione si palesarono in tutta la loro consistenza. Il cuore del concetto era semplicissimo: devoluzione verso i Länder di maggiori competenze di spesa accompagnate da un adeguato livello di autonomia fiscale rispetto allo stato centrale. Obiettivo? Per gli accademici, rilanciare la competitività del 'modello Germania' creando una competizione virtuosa tra Länder, responsabilizzandone le scelte fiscali e di spesa sociale, evitando gli sprechi, e garantendo decisioni più rapide perché sottratte alle infinite negoziazioni a livello Federale. Per il senso comune, porre un argine ai trasferimenti milionari e incondizionati verso i Länder più svantaggiati da parte degli stati più ricchi. Primo nodo di conflitto, il finanziamento dei sussidi di disoccupazione a favore di circa un milione e mezzo di senza lavoro nella ex Germania Est. Un problema redistributivo reale, se si conta che nel 1996 Länder come la Vestfalia o la Baviera trasferivano rispettivamente 12 e 1,5 milioni di marchi per sostenere i disavanzi nelle casse di Turingia (-4,6 milioni) e Berlino (-2,7), tra gli altri.
Fu un gruppo di governatori capitanati dal bavarese Edmund Stoiber - leader della branchia 'meridionale' dei Cristiano Democratici, la CSU – a introdurre la questione nel modo più netto tra il 1996 e il 1997, con il ritorno al governo federale della coalizione SPD-Verdi. Pur senza mai paventare sogni secessionisti, che pur alcuni esponenti della stessa CSU rilevavano all'interno del partito, Stoiber abbracciò l'idea del federalismo competitivo come panacea per rimediare alle storture dell'eredità comunista nell'ex Germania Est e per liberare i contribuenti bavaresi dal giogo fiscale. Le richieste di regionalizzazione dell'assistenza sociale, di decentramento fiscale, e di generale devoluzione di competenze verso i Länder non costituivano solo una polemica politica di sapore ideologico. Toccavano molto più nel profondo la tradizionale dottrina del 'federalismo cooperativo' in Germania, basata sulla concentrazione di risorse a livello federale per garantire il massimo dell'efficacia e solidarietà degli impegni collettivi. Insomma, il federalismo competitivo metteva in discussione le fondamenta stesse dell'equilibrio di uno stato federale, forte ma impiantato – come tutti gli stati – su un proprio equilibrio politico.
Sostenuto da un asse 'sudista' di quattro governatori, Stoiber riuscì finalmente ad impegnare il governo Federale nella discussione di un grande piano di riforma che si protrasse tra il 1998 e il 2000. Ed il livello politico – in particolare il ruolo del Bundesrat, l'organo parlamentare di rappresentanza di tutti gli stati – fece emergere le questioni pratiche che sottintendono ad ogni accordo politico: dalla condivisione di risorse e dal controllo reciproco fornito dal governo Federale profittano, in una maniera o nell'altra, in un periodo o nell'altro, un po' tutti. O la riforma presenta vantaggi razionali per una maggioranza delle parti, o un accordo che determina benefici concentrati solo per alcuni verrà osteggiato da tutti gli altri. Oltre i proclami, lo stabilimento del federalismo competitivo in Germania si è tramutato in un aumento del ruolo dello stato Federale: fino al 2019, il Bund è impegnato a riequilibrare avanzi/disavanzi fiscali oltre una certa soglia con il proprio budget, restituendo la differenza agli Stati che hanno contribuito di più senza ricevere in proporzione. Poiché le risorse federali da nessun altro posto provengono se non dai contribuenti stessi, la polpa del federalismo competitivo è di far rientrare dalla finestra quello che esce dalla porta. Non certo tagli categorici, né rivoluzioni copernicane.
Il nostro regionalismo soffre una serie di disfunzionalità per molti versi estremamente peggiori della Germania di una decina di anni fa. Lo stato centrale italiano non ha la capacità fiscale del Bund tedesco; la tradizione politica dell'assalto alla diligenza e del clientelismo nella distribuzione delle risorse crea danni ben peggiori e radicati per il nostro Mezzogiorno di quelli sorti nella ex Germania Est dopo l'unificazione; in generale, l'economia italiana ha un bisogno urgente e reale di liberare sacche di spesa inutili non solo per dirigere trasferimenti verso investimenti produttivi ma anche per legittimare l'intervento stesso dello stato a riequilibrare le distorsioni del mercato. Al netto delle idiozie ideologiche, il federalismo fiscale ha una razionalità intrinseca che merita una mediazione politica trasparente, pur sotto la forma tutta italiana di processi politici barocchi e folkloristici. L'esempio tedesco mostra quanto la forza delle istituzioni politiche, dei vincoli reciproci possa – sottotraccia – evitare soluzioni punitive ed improvvisate pur concedendo un minimo di soddisfazioni a squilibri realmente esistenti. Assistiamo alla lotta intestina alla maggioranza e partiamo dall'assunto della resistenza come legittima difesa per evitare danni irreparabili. Mi piace a volte sognare che, almeno per quanto riguarda gli esiti più deleteri del federalismo fiscale, ci sbagliamo.
[le informazioni sulla Germania sono tratte da: Daniel Ziblatt, 'Recasting German Federalism? The Politics of Fiscal Decentralization in Post-Unification Germany', Politische Vierteljahresschrift, 43 (4), 2002.]