La Rete fra democrazia e autoritarismo
È ormai un leit motiv diffuso quello di dire che in un mondo in cui la televisione e i giornali sono al servizio dei partiti o dei governi o sono controllati da influenti centri di potere economico su scala internazionale, Internet è l'unico vero spazio di democrazia, in cui gli individui possono assumere informazioni obiettive e scevre da ogni tipo di censura, esprimere liberamente le proprie idee, incontrare e confrontarsi con altre persone, senza rimanere imbrigliati nelle strutture rigide che cristallizzano i rapporti nella vita reale.
Ed è vero che Internet in un certo qual modo può aumentare il pluralismo e la libertà di informazione: si pensi, ad esempio, a come i social network hanno contribuito a rendere noti all'opinione pubblica di tutto il mondo in maniera molto più efficace e dirompente dei media tradizionali gli abusi compiuti dalla censura governativa in Cina, gli abusi di potere in Iran, delle multinazionali e dell'esercito degli Stati Uniti in Iraq.
Addirittura molti vedono la Rete come il futuro della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e dell'espressione della volontà popolare. E in effetti i social network sono spesso utilizzati come strumento per la nascita e la crescita di “cause” e di battaglie civili. Un esempio impressionante di come il web possa creare e influenzare l'opinione pubblica è quello di un utente colombiano di facebook, Oscar Morales, il quale, tramite un gruppo creato nel 2007, portò 12 milioni di persone in piazza contro le Farc. Un altro esempio, nostrano, è quello della creazione sul web del No-B day.
È innegabile che Internet sia uno strumento preziosissimo e imprescindibile al giorno di oggi, attraverso il quale milioni di persone intrattengono quotidianamente relazioni sociali e amicali, migliaia di politici coltivano il proprio consenso elettorale, e decine di migliaia di aziende promuovono la propria attività commerciale. Sono perciò certamente fondate le preoccupazioni di chi lamenta la scarsa diffusione in Italia di Internet e delle tecnologie senza fili che ne facilitano l'utilizzo (da noi esistono quasi 10 milioni di persone che usano la rete mobile per collegarsi, ma devono sopportare i costi più alti e la velocità di connessione più lenta d'Europa). Questo 'sottosviluppo tecnologico' è causato da un evidente predilezione del nostro legislatore per i media tradizionali, e segnatamente per la televisione, se non addirittura dalla volontà di depotenziare il web per evitare che diventi un luogo di dissidenza politica troppo forte e minacci la stabilità del potere costituito[1].
Ma non è tutto oro quel che luccica. È, infatti, tecnicamente scorretto parlare della Rete come una 'democrazia' per il solo fatto che essa è caratterizzata da una grande libertà, dall'assenza di controllo sistematico, dalla facilità con cui si ottengono le informazioni e si condividono le proprie idee con gli altri. L'assenza di regole è, infatti, per definizione 'anarchia', concetto affatto coincidente ed, anzi, antitetico rispetto al paradigma democratico. La democrazia si regge necessariamente su un sistema articolato e coerente di regole che hanno lo scopo precipuo di garantire proprio che la partecipazione degli individui alla vita pubblica e la tutela dei diritti dei singoli avvenga su basi di uguaglianza. L'assenza di regole è, invece, la condizione primigenia perché la parificazione e la protezione degli interessi di rilevanza generale soccombano sotto le pressioni del più forte e dei suoi interessi personali.
Ebbene molti invocano la Rete come uno spazio senza regole in cui la libertà individuale debba trovare la sua massima espressione, senza vincoli e senza censura. Tuttavia, in assenza di regole appropriate si formano delle zone d'ombra in cui diritti fondamentali, quali i diritti della personalità, la libertà di pensiero, la libertà di impresa, etc., non trovano sempre adeguata tutela.
Alcuni esempi. Google, Youtube, Facebook, e simili, offrono dei servizi gratuiti agli utenti. Ma sono veramente gratuiti? La controprestazione per l'accesso a questi servizi a ben vedere c'è ed ha un valore inestimabile: sono i nostri dati personali. I cosiddetti prosumer, nel condividere nella Rete contenuti, idee, ed informazioni, involontariamente diffondono una grande quantità di dati di carattere sensibile, quali ad esempio gli orientamenti religiosi, politici e sessuali. Questi dati personali rimangono per sempre da qualche parte nella Rete e sono facilmente recuperabili con una stringa. Ciò significa che tutto ciò che scriviamo, o meglio: che “postiamo”, i siti che visitiamo, gli acquisti online che compiamo contribuiscono a costruire il nostro profilo. I primi potenziali beneficiari di questi dati sono le società di marketing, che possono avvalersene per ricostruire le nostre preferenze di consumatori. Ma c'è dell'altro. I dati possono essere assemblati per costruire un alias virtuale. L'effetto potenziale è quindi quello di essere schedati. Questo termine non può non richiamare alla mente quando gli operai facevano di tutto per non essere schedati dai datori di lavoro e così evitare di essere discriminati a causa dell'appartenenza ad un partito o ad un sindacato. La schedatura è infatti strumento di discriminazione, ma anche mezzo per finalità di controllo politico e sociale.
Sono queste congetture di sapore orwelliano? Eppure non sono storie romanzate i casi di persone che sono state licenziate perché hanno espresso sul proprio profilo facebook apprezzamenti negativi sull'azienda in cui lavoravano o sul proprio capo, o il caso di un datore di lavoro, nel Regno Unito, che ha selezionava i CV dei candidati in base alle informazioni (personali) assunte sui social network[2].
La legge offre strumenti di difesa da questi abusi? In Italia la legge sulla privacy dà il diritto al singolo di chiedere al gestore di una banca dati se in quest'ultima esistono informazioni che lo riguardano, e di avere una risposta ed un'informazione chiara e precisa, e di rivolgersi al garante in caso di mancata risposta. Il problema è che spesso non si sa chi gestisce una banca dati. Ovvero la piattaforma attraverso la quale sono stati condivisi in rete dei dati personali è situata in Paesi dove non esistono normative altrettanto garantiste in materia di privacy. Ovvero i soggetti i cui diritti sono stati lesi tramite l'uso di Internet non hanno la stessa possibilità di accesso alle tecnologie informatiche che hanno i violatori (si pensi ad un anziano, ad un non abbiente, o a una persona con disabilità. Il caso della pubblicazione su Youtube del video in cui un ragazzo down veniva schernito e picchiato dai suoi compagni è un esempio molto eloquente di come le disuguaglianze nella Rete crescono in maniera esponenziale).
Insomma, è vero che Internet è un potentissimo strumento di informazione ma è anche vero che sul web a legge non è uguale per tutti. E non è affatto vero che il mondo virtuale sia più democratico della società reale. Basti pensare a come sono stati finora gestiti i social network. In maniera quasi dittatoriale, senza rendere conto agli utenti, vengono sospesi profili, eliminate (leggi: censurate) informazioni, ovvero fornite in maniera arbitraria senza che venga reso noto il criterio di scelta delle stesse (il riferimento è a Google e al modo – assolutamente non trasparente- con cui il logaritmo effettua il ranking dei siti proposti dal motore di ricerca).
È innegabile, dunque, che la Rete può essere una via verso la democrazia. Tuttavia, se lasciata a se stessa, essa può essere anche un nuovo mezzo per servire esclusivamente gli interessi individuali anziché quelli della società e per abituarci a vivere in ambienti poco democratici, dove sono aboliti quei diritti frutto di secoli di lotte e conquiste civili[3].
In conclusione, senza una normativa adeguata il rischio di storture è altissimo. È quindi,chiaro che dare una regolamentazione nella Rete è necessario, per evitare che centri di potere occulti si facciano portatori di una finta democrazia. La sensibilità di questa regolamentazione alla tutela dei diritti individuali determinerà il grado con cui Internet può rendere la nostra società più o meno democratica.
[1] La c.d. Leggi 'ammazza-Internet', il Decreto-legge n. 144 del 2005 ed il Decreto del Ministro dell'interno 16 agosto 2005, conosciuto come Decreto Pisanu, impongono ai gestori di un esercizio pubblico o di un circolo privato di acquisire preventivamente i dati anagrafici dei soggetti che utilizzano postazioni pubbliche non vigilate per comunicazioni telematiche ovvero punti di accesso ad Internet utilizzando tecnologia senza fili.
[2] I casi sono state menzionate nel dibattito La realtà virtuale, spazio di parificazione o veicolo di nuove disuguaglianze? tenutosi nel corso del Festival del Diritto di Piacenza il 24 settembre.
[3] Questa la preoccupazione espressa da Peter Ludlow, uno dei maggiori filosofi della tecnologia alla Northwestern University (Illinois), nel suo ultimo saggio “Il nostro futuro nei mondi virtuali”.