Voci da Nairobi: Quando la fuga diventa una trappola
Quando torniamo a casa Mohamed è rientrato e con lui c'è la prima donna che intervisto. Badriya non si muoverà più di casa, neanche dopo che l'intervista sarà terminata. Se ne starà lì seduta, sorridendomi e passandomi mirah. Talvolta si preoccuperà del fatto che non mangio, in altri momenti scherzerà con Mohamed sul fatto che in realtà sono sua figlia. Particolare questo che mi riempirà di orgoglio, e adesso vi racconto perché.
Badriya ha 42 anni ed è qui dal 2005.
Nello stesso anno in Ethiopia il marito venne sospettato di essere affiliato all'OLF, così quando i militari si presentarono alla loro porta e non lo trovarono presero lei in pegno. La torturarono per un mese e poi la rilasciarono dandole 48 ore di tempo per consegnar loro il marito. Badriya andò a casa, prese due dei suoi cinque figli e scappò in Kenya.
Se qualcuno può pensare che i timori cessano una volta varcato il confine sbaglia. Come ho sostenuto nell'introduzione, Nairobi è una città piena d'insidie, una no men's land dove tutto può accadere, e la storia di Badriya e delle altre donne di cui racconterò ne spiegherà il perché. Le loro storie testimoniano come le donne sole, soprattutto le etiopi, sono qui facile preda dei traffici di prostituzione, vittime di minacce da parte dei membri della comunità d'origine. Questi, una volta ricostituite le dinamiche tradizionali di lignaggio, possono decidere che esse sono le responsabili per la dipartita dei mariti oppure spie del governo Zenawi, dunque le isolano, diffamano e perseguitano.
Così è tra le lacrime che Badriya mi dice che la sua figlia più piccola, di circa 16 anni, un paio di mesi fa è uscita di casa senza fare più ritorno. Inutili sono stati i tentativi di questa donna di informare l'UNHCR a proposito dei suoi timori per delle ritorsioni nei confronti della sua famiglia quando arrivò a Nairobi. Inutili sono state le sue denuncie una volta avvenuta la scomparsa.
Quando al termine dell'intervista le chiedo se ha qualcosa da aggiungere, Badriya mi guarda e stringendomi la mano mi dice:“Mi manca mia figlia… Perché tutto questo silenzio attorno a noi Oromo? Perché la comunità internazionale non fa nulla? Quante altre bambine come la mia devono ancora sparire?”.
Non ho risposte per le sue domande, solo un morso allo stomaco al pensiero che un giorno io possa trovarmi nella sua condizione; solo un senso di colpa immenso per la mia ignoranza verso le sue sofferenze.
Mentre sono lì che mastico mirah nervosamente, sperando di buttare giù un po' di frustrazione, entra una donna. Il suo burqua nero striscia lungo la parete e si dirige nell'altra stanza, richudendosi la porta alle spalle.
Gamachisa mi passa una sigaretta e mi sussurra:“E' lei. E' Samira. Fuma questa che poi andiamo di là”. Da quando ci siamo incontrati Gamachisa mi ha spesso parlato di lei. Mi aveva però solo accennato che la sua situazione era “molto critica” e che sperava che attraverso i miei contatti con le ong e l'UNHCR avrei potuto aiutarla.
Apro la porta e la vedo là Samira, seduta in un angolo, per terra, col velo alzato sulla fronte che dà respiro ad un volto spento. In quel momento ancora non so quanto al termine del nostro incontro avrei potuto disprezzare il genere umano.
Samira ha 28 anni. È arrivata nel 2001 dopo che padre e fratello sono stati uccisi dai militari e che lei ed il marito sono stati deportati nei campi. Lì Samira è stata torturata e violentata due volte. Quando l'hanno rilasciata, non ci ha pensato un secondo, è scappata in Kenya violando la libertà condizionata.
Arrivata qui sola, un amico del marito, nonché membro di una casta Oromo ricostituitasi a Nairobi, si è offerto di sposarla e di prendersi cura di lei; Samira ha rifiutato, convinta che il marito un giorno l'avrebbe raggiunta. E così fu, il marito arrivò e pochi mesi dopo Samira era incinta. Tuttavia, quello che ora sembra l'epilogo di una storia drammatica rappresenta in realtà solo l'inizio di un incubo.
La casta, non avendo apprezzato il rifiuto di Samira nei confronti della precedente proposta di matrimonio aveva iniziato una campagna diffamatoria nei suoi confronti, sostenendo che Samira si era prostituita per tutto il periodo antecedente all'arrivo del marito. Questi decise di credere agli anziani della casta e così, dopo averla torturata con metodi che mi rifiuto di riportare, l'ha ripudiata, proibendole di avere qualsiasi contatto col figlio.
Sono cinque anni che Samira non vede il suo bambino ma dalla faccia impassibile con cui ne parla capisco che la sua storia non è ancora terminata. Che qualcosa di ancora terribile ha riempito le pagine di questi suoi ultimi 5 anni.
Nel tentativo di rifarsi una vita infatti, Samira iniziò a lavorare; prima come cameriera in un ristorante etiope, poi, visti i tentativi da parte dei gestori di inserirla nel giro della prostituzione, come venditrice di the e caffè per alcuni somali di Eastleigh. Samira parla somalo fluentemente perciò capisce perfettamente quando alcuni dei membri della comunità del distretto le propongono di iniziare a lavorare per loro. E' l'ennesimo tentativo di prostituirla e Samira si ribella, abbandona la comunità e cerca un altro lavoro. Era il 18 gennaio del 2010, Samira stava tornando a casa la sera e due uomini, a suo avviso gangster kenyani assoldati da somali, le puntarono una pistola alla tempia, la trascinarono in un vicolo ed abusarono di lei.
Ora piange Samira, asciugandosi le lacrime con la gonna chiede a Gamachisa di uscire dalla stanza perché vuole mostrarmi il suo corpo. Quello che ho avuto davanti agli occhi quel giorno non lo dimenticherò mai, non pensavo che un corpo potesse diventare la cartina tornasole di una vita di brutalità. Ho preso Samira e senza pensarci l'ho stretta a me, non so dire in quell'istante chi stesse afferrando chi. Se fosse Samira che attaccandosi a me chiedeva aiuto o se fossi io che agguantandola le chiedevo come donna di non mollare.
Quando Gamachisa rientra, mi mostra una cicatrice che ha sulla spalla e mi spiega che quello è il biglietto da visita di due guardie kenyane, o presunte tali, che qualche mese prima avevano aggredito nuovamente Samira mentre lui era nei paraggi. Lei l'aveva chiamato urlando e lui era corso da lei, il prezzo per la vita di Samira era uno squarcio di 6 centimetri sulla sua spalla.
Samira si alza, si copre il volto e se ne va. Quando è fuori Gamachisa mi dice che la settimana precedente Samira aveva tentato il suicidio con della varecchina. Non ce la fa più, ed io non so a chi chiedere perdono per aver pensato in quel momento che non potevo biasimarla.
Quando rientro nella stanza principale ci sono una donna con una bambina, sono Kuli e Fardosa. Kuli è la madre, ha 27 anni ed è arrivata a Nairobi nel 2006. Non avendo consegnato il fratello ai militari è stata deportata in un campo con la madre.
Due anni di detenzione per Kuli non hanno solo significato un bagaglio di ricordi orrendi. Lo capisco quando alza la mano ed indica Fardosa. Quella bimba dall'occhio vispo e al contempo timido, che se ne sta lì tutta contenta mentre si beve la Fanta che le ho comprato, è il frutto dell'ennesimo stupro nei campi di detenzione.
Kuli, vergine ed innocente, in due anni è diventata donna e madre, dando alla luce sua figlia in un inferno. Quando la liberarono con la condizionale anche lei decise di scappare e di venire qui. Ora vive con i fratelli a Kariobangi, uno degli slum più poveri di Nairobi, dove la gente può essere affamata e crudele. Fardosa è stata ritirata da scuola proprio per questo, perché una figlia “bastarda” non merita di giocare con gli altri figli.
Un giorno, mentre se ne stava nei vicoli con alcuni bambini, un gruppo di uomini l'ha colpita in testa con una pietra. Quando a chiedo a Kuli se avesse idea di chi fossero, se kenyani o etiopi, lei scuote la testa ed io guardo Fardosa. In fin dei conti che importa chi è stato, che siano i vicini kenyani che allontanano i loro figli da lei o gli etiopi che la considerano una bastarda: Fardosa è discriminata.
Il sole sta per tramontare ed è bene che una mzungu come me rientri a casa se non vuole rischiare. Gamachisa, Kuli e sua figlia mi accompagnano verso il matatu. Quando salgo, mi siedo in fondo e butto l'occhio verso di loro: di colpo tutte le storie ascoltate in questi due giorni mi risalgono la gola, pizzicando il naso e riempiendo i miei occhi di lacrime. Poi il matatu parte ed io guardo Fardosa, le mando un bacio con la mano e lei me lo rimanda.
Me ne vado con un pensiero: Faradosa è un miracolo. Talvolta la più bella vendetta verso una vita di merda è la vita stessa, quella manina che mi fa ciao ne è la riprova.
Mi si riempono gli occhi di lacrime nel leggere quel che riporti. Non so se può essere d'aiuto avere conoscenza di queste testimonianze, non so se può migliorare il mondo condividere il dolore altrui, ma so per certo che preferisco sapere e soffrire piuttosto che voltare lo sguardo e fare finta di niente.
Grazie Nene per le emozioni e le verità che ci hai donato.