Ab urbe dissoluta
Nemici dell'unità nazionale l'Italia ne ha sempre avuti. Primo, perché il processo di formazione dello Stato Italiano è stato il risultato di una campagna militare. Certo, addolcita e mitizzata dall'idealismo intellettuale, ma anche densa di tutti gli inevitabili scontri (con la Chiesa romana) e ingiustizie (contro i contadini Meridionali) che la guerra di espansione territoriale della Monarchia sabauda portò con sé. Secondo, perché l'appropriazione del nazionalismo da parte della Destra fascista e post-fascista ha generato un contro-movimento internazionalista i cui strascichi anticapitalisti si perpetuano fino ad oggi. Terzo, perché la politica clientelare della Repubblica Italiana ha fatto di tutto per perpetrare i conflitti distributivi esistenti fino a crearne di nuovi, concentrati in aree territoriali ben definite nel Paese.
Non saranno quindi solo le petulanti vuvuzela secessioniste della Lega Nord a contestare la retorica dei festeggiamenti dell'anniversario dell'Unità di Italia nel 2011. Lo Stato italiano ha largamente fallito, ieri come oggi, nel dotare la pretesa comunità nazionale di una concretezza amministrativa e di giustizia sociale che giustifichi la sua esistenza di per sé. Possiamo consolarci nel constatare che l'Italia non è un caso isolato, a giudicare da Belgio e Spagna, per non parlare del dramma balcanico. Questo non può però esimerci né dal testare le fondamenta di uno Stato nazionale nella nostra epoca né dal giudicare le alternative emergenti.
Per essere scontati, si può andare a parare sull'Europa unita. La più immaginaria tra le “comunità immaginarie”. Ma anche la dimostrazione che l'organizzazione politico-amministrativa – che oggi conosciamo come Stato – è messa sotto pressione dall'espansione dei confini per gli scambi economici, dalle loro funzionalità produttive e conseguenti reti sociali. Finché durerà il capitalismo del libero scambio internazionale l'Italia, così come tutti i Paesi Europei, saranno puri figuranti del mondo futuro. Finché aumenterà questo squilibrio demografico con i continenti confinanti, l'immigrazione aprirà conflitti sempre più aspri nelle identità collettive e nelle strutture sociali. Tanto varrebbe precorrere i tempi della “costellazione post-nazionale”, ma pare che si preferisca affannarsi alla sua rincorsa.
Difatti, le reazioni a questo stato di cose sembrano più propendere per uno scenario neo-medievale: piccoli potentati territoriali, all'apparenza più omogenei culturalmente ed efficienti amministrativamente. Lo scenario Padania, insomma. Di per sé, niente di aberrante. In stato di pace, regioni e città hanno dimostrato un'agilità inaspettata a muoversi nel mondo globale. Se solo potessimo essere meno sospettosi sul loro utilizzo, la polemica sui 246 uffici delle Regioni italiane nel mondo sarebbe totalmente miope. I lati oscuri della medaglia stanno nella concorrenza che micro-stati tornerebbero a farsi e nella loro incapacità di difendersi da soli da minacce esterne. Le ragioni della scomparsa dei glorificati Comuni italiani, tanto per essere chiari.
Quel che c'è di aberrante nello scenario Padania è la sua ambizione piccolo borghese. Una critica all'unità di Italia fondata sul contrario della rivoluzione sociale, ovvero sulla santificazione dei nano-gattopardi nordisti, professionisti della rendita e seduttori di masse incolte: la versione baùscia del “tutto cambi perché nulla cambi”. Nemmeno le dinastie regnanti. Se nuovo nazionalismo deve essere per l'Italia, almeno che metta in chiaro che quel blocco sociale è il cancro di qualsiasi società futura. Tralasci le fascinazioni per concetti inutili come “popolo” e “patria”, e lavori di bisturi per eliminare le incrostazioni clientelari e soprusi corporativi che tolgono aria ad ogni comunità si voglia rintracciare.
Poi, con l'Italia unita se si può. Verso altro, se si dovrà.