Storia di due fratelli…
Nella puntata precedente, oltre due mesi fa, ci lasciammo con una scena di addio: una donna corre verso la stazione, vede i suoi figli sul carro del treno, tenta di passare, ma i soldati le sbarrano la strada. Allora fa il giro, scavalca un muretto, riesce ad avvicinarsi al treno quasi in partenza, e vi lancia dentro una valigia. Le porte del carro bestiame si chiudono e il treno parte. Lasciamo la coraggiosa madre in quella stazione, con lo sguardo fisso sul treno che conduce i suoi figli, e i figli di tante altre madri, verso una destinazione ignota. Rimaniamo sul treno, da adesso, seguiremo le vicende dei fratelli Todros, inconsapevolmente diretti verso il campo di concentramento di Mauthausen, in Austria.
Sul vagone ci sono giovani, vecchi, donne, bambini, sono oltre 50 persone stipate come sardine. Il treno arriva dopo oltre tre giorni e tre notti di viaggio. La scena dell'arrivo in stazione è quella classica, raccontata in migliaia di testimonianze: la notte, il freddo, chilometri di marcia in colonna, carichi di bagagli, scortati dalle SS, le bastonate e i cani lupo che abbaiano. L'ingresso nel campo, l'immagine di un'enorme ciminiera che fuma e uno strano odore nell'aria.
Una volta entrati nel campo vengono privati di tutti i loro beni, fatti spogliare, rasati, schedati, numerati. Dopo una prima selezione, i nuovi arrivati nel campo vengono messi in quarantena per 40 giorni. Durante il giorno sono costretti a stare all'aperto, senza potersi sedere, né bere, né mangiare. La sera vengono portati in un camerone e li fanno dormire in una posizione che ottimizza lo spazio, quasi sempre troppo piccolo. Alberto racconta: Ci portavano a due per volta e ci mettevano uno con la testa e uno coi piedi, come le acciughe, uno con la testa e uno con i piedi[…] io cercavo di avere sulla faccia i piedi di mio fratello o dell'amico. Tra l'altro i piedi scalzi dopo essere stati tutto il giorno nel cortile fangoso.
Passato il periodo di quarantena vengono selezionati per i vari lavori. Di cinquecento che erano nel blocco, né sopravvivono duecentocinquanta. Carlo racconta: i prigionieri dovevano essere distribuiti per i vari lavori. Fecero l'appello e chiamarono me e non mio fratello. [...]Mio fratello allora con un atto di incoscienza, andò dal capoblocco che era un triangolo nero, un criminale. Mio fratello un po' di tedesco lo parlava, ed ebbe il coraggio di chiedergli se era possibile rimanere tutti e due fuori o tutti e due dentro. Questo, non so neanchè come mai, preso alla sprovvista guardò mio fratello e gli disse “Va bene, tutti e due dentro!”. E siamo rimasti tutti e due a Mauthausen per un anno. Un anno intero insieme e questo sicuramente è stato un miracolo che è derivato dalle preghiere di mia madre perché era in contrasto con le regole di Mauthausen.
Un caso più unico che raro, poiché la politica dei campi di concentramento era quella di dividere i familiari ad ogni costo. Carlo e Alberto vissero insieme tutta l'esperienza del campo di concentramento. Condivisero il lavoro disumano, lo spettacolo quotidiano della morte. Divisero lo stesso pane, lo stesso giaciglio. Le risorse di uno erano quelle dell'altro. Si aiutarono mutuamente e, forse, questo permise loro di sopravvivere.
Alberto, si dichiarò ingegnere (anche se non aveva concluso gli studi universitari), venne preso a lavorare per uno dei comandanti del campo e anche questa fu una tremenda “fortuna”: poiché gli permetteva di mangiare meglio (ogni tanto il Kapò gli lasciava gli avanzi dei pasti), di fare un lavoro da seduto e di riuscire a trovare lavori meno faticosi per Carlo.
La detenzione nel campo durò un anno. Poi arrivò il giorno della liberazione: i tedeschi che scapparono all'improvviso, l'ingresso del primo carro armato americano, la ritrovata libertà e, come raccontò anche Primo Levi, l'apatia dei liberati, ovvero l'assenza di esultanza, di gioia. Prima dell'arresto Carlo pesava novanta chili. Al momento della liberazione ne pesava 38, ed era alto un metro e ottantadue.
Poi ci fu il ritorno a casa. Non abbiamo molte informazioni su come questo avvenne. Quello che sappiamo e che all'inizio non vennero creduti: quando siamo tornati – racconta Carlo - e abbiamo cercato di raccontare, anche gli stessi familiari, non erano in grado di poter recepire quello che noi dicevamo. Molto spesso preponevano ai nostri discorsi le loro sofferenze, la fame, i bombardamenti, il periodo della guerra che per noi erano cose ridicole. Quindi decisero di non parlarne più. E non ne parlarono finché non viene fuori Primo Levi con i suoi libri Se questo è un uomo, La tregua, I sommersi e i salvati, che sensibilizzarono l'opinione pubblica sull'argomento. Solo allora decisero di iniziare a testimoniare anche loro.
Negli anni successivi Alberto si distinse per la sua attività di politico e urbanista. Prima segretario di una sezione torinese del PCI, poi consigliere comunale a Torino per 24 anni, poi eletto deputato al Parlamento per quattro legislature(la prima nel 1963) dove fece parte della Commissione Lavori Pubblici. Carlo si impegnò nella diffusione della verità storica sui campi di concentramento e negli anni '90 fu presidente della sezione bresciana dell’ANED (Associazione nazionale ex deportati).
Entrambi i fratelli sono morti nel 2003. Fino agli ultimi giorni hanno continuato ad andare nelle scuole per testimoniare alle nuove generazioni l'esperienza vissuta nel campo di concentramento.