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Scritto da nel Numero 67 - 1 Marzo 2010, Tempo e spazio liberi | 0 commenti

UNA VIA per il carcere

Il gruppo 'Una via' è nato nel novembre del 1998 a Bologna, dall'iniziativa del professor Pier Cesare Bori ed un gruppo di giovani con i quali si voleva approfondire il lavoro che si era già svolto nel corso di Filosofia morale a Scienze Politiche.
'Una via' nasceva come una comunità di formazione e ricerca attraverso cui ciascuno di noi avrebbe potuto trovare una 'sua' via. Voleva essere una cosa 'leggera', libera, senza identità deliberante, in cui ciascuno potesse trovare amicizia ed alimento, ma anche passare ed andare, avendo preso quello che gli servisse. 'Una via' tra le tante.
La struttura degli incontri, dopo diverse prove e cambiamenti, si è definita così: una riunione, in genere il venerdì, in Facoltà, con un breve silenzio iniziale, poi una lettura, una conversazione, e brevi scambi di informazioni e di cose pratiche.
Alla fine del 1998 il professore cominciò a portare la medesima esperienza all'interno della Casa Circondariale la 'Dozza' di Bologna, in seguito, invitò il gruppo, appena nato, a lavorarci.
L'idea di entrare in carcere con il gruppo di 'Una via' era che le stesse cose che a noi mancavano, mancassero anche a loro. La stessa aspirazione ad una vita diversa, degna, onorevole.
Lo stesso bisogno di sapere e di luce
Gli incontri con i detenuti hanno seguito la medesima struttura di quelli in facoltà con studenti e non, iniziando con quindici minuti di silenzio.
La riunione ed il silenzio vengono sempre introdotti da una spiegazione: ciascuno darà al silenzio il significato preferito-meditazione, preghiera, semplicemente quiete, in base anche alla tradizione religiosa di appartenenza, oltre che alla sensibilità presente di ciascuno.
Le riunioni vedono la partecipazione di detenuti di varia ascendenza culturale e confessionale: mussulmani, cristiani, (cattolici, ma anche protestanti ed ortodossi) buddisti. Si tratta in genere di non praticanti, che vedono in questo l'occasione di un momento spirituale libero e intenso. Il silenzio come momento che unisce aldilà delle diverse appartenenze religiose.
Alla “meditazione silenziosa” segue la lettura di testi di varia natura, ed uno scambio di riflessioni nate dal silenzio o da ciò che è appena stato letto.
Nell'insieme dei testi scelti prevalgono tre gruppi principali.
Il primo è costituito da testi della tradizione buddista nelle sue diverse espressioni, hinayana, tibetana, zen. Inoltre si attribuisce molta importanza ai testi di Thich Nhat Hanh, di matrice zen, geniale rappresentazione del buddismo attivo.
Il secondo è costituito dal sufismo: al-Hallag Ibn al-Arabi, Rumi, il romanzo filosofico Ibn Tufayl. Il terzo è formato da documenti che provengono dalla storia degli Amici (Quaccheri), soprattutto passi del diario o dalle lettere di Gorge Fox.
Quello che accomuna i tre filoni è una risposta fiduciosa, nei relativi contesti, a una situazione diffusa di incertezza, di crisi culturale e di insicurezza esistenziale.
Questo era stato il dramma del Buddha: una risposta che insisteva sulle capacità della mente di individuare e percorrere il cammino della liberazione. Questo significato aveva il sufismo di al-Ghazali, La liberazione dagli errori, e più ancora la fiducia di ibn Tufayl nella capacità della mistica naturale.
Questo era il senso della predicazione degli Amici, che nel contesto turbolento della rivoluzione inglese volgevano le persone alla luce interiore che abita in ognuno.
Questa fiducia è il segno fondamentale della nostra esperienza.
Fiducia di capire i testi, a partire dalla loro lingua, di potersi avantaggiare della sapienza che vogliono trasmettere.
Ma prima ancora, fiducia nelle proprie risorse interiori- qualunque nome si voglia dare loro:mente spirito, ragione- da cui nasce la possibilità di leggere, e anche di non leggere, di tacere, di dire parole proprie, di fare cose nuove.
Il carcere la 'Dozza' è un mondo, più di mille e cinquecento detenuti, decine di nazionalità, molte lingue, religioni e confessioni. Molta miseria, ignoranza, solitudine, molta sofferenza(e accanto, e prima ancora c'è quella delle vittime). Ma anche attorno persone buone, buona volontà.
Il silenzio, le letture, le conversazioni, l'incontro con i detenuti offre a noi e a loro, la possibilità di imparare qualcosa, di trovare 'una nuova via', 'una propria via', o semplicemente 'Una via'. Suggerisce di fermarsi a riflettere sul nostro agire, sui problemi e sulle passioni che accomunano tutti. Di allenarsi a riflettere su cosa significhi davvero essere consapevoli di ciò che siamo, diciamo, facciamo o che semplicemente pensiamo. Imparare la consapevolezza di sé, conoscere i propri sentimenti e le proprie preferenze e usare questa conoscenza per guidare i processi decisionali; avere una valutazione realistica delle proprie abilità e ben fondata fiducia in se stessi.
“Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”(Mahatma Gandhi).
Difficile valutare i risultati (come del resto i risultati di ogni pedagogia fuori dal carcere).
L'unica critica che il mio professore, Pier Cesare Bori, fatica ad accettare, e che condivido, è che il nostro lavoro non sia “concreto”. D'altronde, citando il Professore:'Che cosa è concreto?
La mente che pensa, che desidera, che soffre, non è concreta?
(Ci occupiamo anche delle biblioteche e del diritto allo studio, seguendo ed aiutando i detenuti che intendono proseguire o intraprendere gli studi universitari, anche grazie alla Convenzione Università di Bologna -Casa Circondariale, attualmente in essere.)
Ringrazio e saluto, invitando a partecipare al gruppo “Una via” che a luogo ogni venerdì dalle 13 alle 14 presso la Facoltà di Scienze politiche, aula Farnese, Strada Maggiore 45.

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