L'Unione Europea, il trattenimento degli immigrati clandestini e la società civile
La competizione politica italiana è, purtroppo, da svariati anni eccessivamente incentrata sul tema della sicurezza, a causa anche del grosso impatto mediatico che ha sulla popolazione. Vengono fatte dichiarazioni e approvati atti, come la recente “legge sicurezza” del luglio 2009 sul reato di clandestinità, che rassicurano una parte dell’opinione pubblica e fanno tremare l’altra. Il dibattito sulla sicurezza è talmente scottante che ogni forza politica tenta di farne una propria esclusiva – sia a destra che a sinistra – ed è anche talmente accecato che alcuni politici e partiti nelle loro proposte pensano addirittura di poter scavalcare
Per questo motivo mi sembra importante ricordare che l’Italia in primis ha una sovranità che nella sua applicazione è limitata da vincoli costituzionali, e che i suoi poteri sovrani sono in parte trasferiti all’Unione Europea, cui atti sono gerarchicamente superiori a quelli nazionali e che cerca, non ultimo con il Trattato di Lisbona, di essere sempre più vicina ai suoi cittadini e ai loro problemi.
Nel bene e nel male questo vale anche per il tema della sicurezza. Nel bene perché, per coloro che temono derive autoritarie e anticostituzionali, l’Unione Europea costituisce una sorta di garanzia ulteriore alla Costituzione. Nel male perché non è detto che l’azione europea, risultato di complicati compromessi tra ventisette paesi, riesca ad essere sempre più virtuosa di quella nazionale.
Nel complesso della tematica affrontata questo mese da L’Arengo e dell’iniziativa civile che si terrà a marzo in via del Pratello, tenterò di presentare alcune criticità relative al trattenimento di cittadini extracomunitari irregolari, disposizione prevista al fine del loro allontanamento dal territorio comunitario, presenti nella cosiddetta “Direttiva Rimpatri” che costituisce uno degli esempi non brillanti dell’azione europea.
Va premesso che una direttiva europea fissa gli obiettivi da perseguire imponendo un obbligo di risultato agli Stati, ma che i mezzi e gli strumenti sono delegati a livello nazionale-locale secondo il principio di sussidiarietà. La finalità è armonizzare la legislazione dove le situazioni nazionali sono molto differenti e necessitano di flessibilità.
L’oggetto della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 sono le norme comuni da applicarsi al rimpatrio di cittadini il cui soggiorno è irregolare. Tra le disposizioni è previsto che il cittadino da rimpatriare possa essere trattenuto al fine di preparare l’allontanamento nell’impossibilità di applicare misure meno coercitive (anch’esse previste dalla direttiva). Bisogna quindi porsi interrogativi sulla necessità e sui limiti di questo tipo di provvedimento, nonché sulle condizioni e le modalità con cui viene messo in pratica.
Riguardo alla prima questione, l’esecuzione del rimpatrio comporta un’adeguata e diligente preparazione affinché possa avvenire nel rispetto della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e l’interessato, una volta allontanato, non venga lasciato in balia di trafficanti di esseri umani o di governi che calpesterebbero i suoi diritti. Per questo motivo è ritenuto necessario che il cittadino che eviti od ostacoli tali preparativi possa essere trattenuto. La questione spinosa riguarda i limiti e i possibili estremi di tale misura. Benché il soggetto venga trattenuto a causa di un comportamento attivo o passivo a lui imputabile, la durata del trattenimento può essere determinata da fattori che esulano dalla sua responsabilità. Esempi potrebbero riguardare ritardi burocratico-amministrativi dettati dal carico di lavoro a cui le singole amministrazioni sono soggette, o dei problemi relativi all’identificazione dell’individuo, e potrebbero tradursi in un periodo di trattenimento fino a 18 mesi. Un limite eccessivo che va oltre la ragionevolezza e la proporzionalità che si devono considerare nell’impiego dei mezzi e nel perseguimento degli obiettivi. Basti pensare ai disagi che un trattenimento così lungo potrebbe causare a persone “vulnerabili” quali minori, disabili, donne in gravidanza o persone che hanno subito gravi forme di violenza di tipo psicologico, fisico o sessuale.
Maggiore perplessità destano le condizioni previste. Il trattenimento avviene di norma nei famigerati centri di permanenza temporanea, ma si può anche ricorrere ad istituti penitenziari nei casi in cui l’ospitalità nei primi fosse impossibilitata (limite non espresso che è quindi soggetto alla discrezionalità di ogni centro).
Le criticità non sono poche, in particolare nel caso in cuii trattenuti vengano "ospitati" in istituti penitenziari.
Nonostante sia infatti previsto che i trattenuti siano tenuti separati dai detenuti, l’eventualità di riferirsi a delle carceri favorisce l’associazione tra fenomeno criminale e immigrazione irregolare. Inoltre, non si tiene in dovuta considerazione che le esigenze dei trattenuti, in particolare delle persone vulnerabili, sono completamente differenti da quelle dei detenuti e richiederebbero la presenza di operatori con una formazione profondamente diversa da quella del personale penitenziario. Ciò riguarda anche le famiglie e i minori non accompagnati che non sono esenti dall’eventualità di essere trattenuti in istituti penitenziari, sebbene sia previsto lo siano solo in casi eccezionali, e anche per un consistente arco di tempo, come il riferimento al dovere di garantire l’eventuale accesso all’istruzione per i minori può far sospettare.
Altre misure poco chiare potrebbero subire delle deformazioni nella loro messa in pratica. Il diritto degli interessati a entrare in contatto con familiari, legali o autorità consolari, ad esempio, viene concesso solo “a tempo debito”, un’espressione alquanto indeterminata che nella sua interpretazione può non offrire le necessarie garanzie di tutela giuridica. Un’altra discrezionalità poco opportuna è la possibilità lasciata ai centri di subordinare la richiesta d’accesso da parte di organismi e organizzazioni internazionali o non governative ad un’autorizzazione preventiva, privando loro dello strumento della visita non annunciata che è il più efficace nel constatare le reali condizioni dei centri.
Per concludere, l’Unione privilegia in questo atto un approccio securitario al problema che, con tutta probabilità, non è il migliore in quanto non considera a sufficienza gli interessati come soggetti deboli cui dover garantire il rispetto dei diritti, bensì come problemi di ordine pubblico e di sicurezza da allontanare al più presto possibile.
La presentazione di questi aspetti negativi non vuole gettare fango sull’Unione, ma semplicemente far presente l’esistenza di un attore determinante in ambiti molto delicati della convivenza sociale che molto spesso i media nazionali non sottolineano. L’azione europea può e deve essere migliorata. Riguardo al tema trattato, per rassicurare, è previsto che
Complimenti per l'analisi Filippo!
Una domanda: che tu sappia la possibilità di subordinare l'accesso ai centri ad un'autorizzazione preventiva riguarda anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)?
Sarebbe un caso più unico che raro! Il CPT entra anche nelle carceri della Cecenia, e adesso non può entrare nei CIE?!
La direttiva fa riferimento a Organizzazioni Nazionali, Internazionali e Non Governative competenti, tra le quali rientra anche al Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. Quindi dieri di sì, può essere soggetto alla richiesta di autorizzazione preventiva.
Questa può essere richiesta secondo discrezionalità dei centri o degli istituti penitenziari, ciò non implica che possa essere negato l'accesso, ma è permesso solo a tempo debito, il che permetterebbe di “cammuffare” le reali condizioni dei detenuti/trattenuti e il loro trattamento da parte del personale.