XXII – Il ciclope innamorato
Capitolo Ventiduesimo
Dove si raccontano le vicende dell'Uomo Montagna
Sempre con una domanda avevamo lasciato questi due (Allora Zenone a quale Itaca volevi tornare?) al tavolo però di un buon pasto, molti anni appresso, e con Zenone che cambia colore tre volte e non si vede uscire vivo di lì. Con Laerte che fa il trucchetto del bastoncino e ricorda la fine che ha fatto fare al satiro. Con Odisseo che ci si chiede che fine ha fatto, e s'inizia a pensare l'abbia preso il mare. Dei tre uno è ucciso, l'altro l'ha preso il mare, il cane Argo è vecchio…
…ma noi adesso li lasciamo ancora un po' nel loro momento di suspance a tavola e andiamo a vedere cosa succede in una terra poco lontana. Bisogna tentar di vederci chiaro in una vicenda che da migliaia di anni è sulla bocca di tutti, cani e porci la conoscono o almeno credono di conoscerla, ma tocca far più attenzione, tentar di vederci chiaro, dico io. E allora andiamo a vedere, già che siam qui da queste parti in queste terre mitologiche e ancestrali; perché succede proprio adesso, contemporaneamente al ritorno a Itaca di Zenone con lo scriba e tutta la suspance che ne segue.
Andiamo a vedere, questa vicenda, vederci chiaro.
La guerra, come sappiamo, è finita già da un po', e in molte zone del mediterraneo si riprende la vita godereccia di un tempo, come si nota dalla spiaggia di queste terre mitologiche e ancestrali che stiamo sorvolando, dove ci sono delle vergini smorfiosette che giocano e si rincorrono e fanno un gran baccano – tanto da risvegliare da un bel sonno nella sua caverna umida il grande Polifemo. Dico grande proprio perché era grande di statura, anche troppo più grande, ed era considerato perciò deforme e lo chiamavano “l'uomo montagna” e lui Polifemo che era di animo sensibile ne soffriva molto e piangeva guardando il mare.
Allora Polifemo si sveglia dal suo pisolino del pomeriggio, per via di quelle risatine verginali delle smorfiosette in spiaggia, va a vedere che succede. Come lo vedono arrivare, però, le smorfiosette si spaventano a morte e corrono via a grandi falcate, gridando e piangendo e vomitando nella corsa. Perché Polifemo è brutto e peloso, disumano, sproporzionato, sgraziato e malfatto. Ha le ciglia folte e attaccate l'una con l'altra sopra due occhi neri e strabici, la testa ovale invece che tonda come tutti gli altri Ciclopi, le orecchie a sventola e una grande verruca sulla fronte rugosa. Allora tutte scappano via a vederlo da lontano. Tutte meno una: Galatea, detta “la bella” e anche “la sirena sullo scoglio” perché stava sempre la sera s'uno scoglio, e anch'era detta “la gran vergine” da cert'uni, perché ai Ciclopi piace molo dare dei nomignoli alla gente.
E quindi si diceva: arriva Polifemo. Tutte scappano via meno Galatea la gran vergine che lei invece non si spaventa ed è bella e dolce più di qualsiasi altra creatura – almeno per gli occhi di Polifemo, che come s'è già detto erano deformati dallo strabismo. Ed ecco che Polifemo manda in vacca quel po' di cervello che si ritrova in testa e se ne torna alla sua caverna saltellando innamorato.
Ma nella terra dei Ciclopi vive anche un pastorello dalla carne tenera e i boccoli neri come la pece: Salvatore Aci, detto “Turiddu”. Ogni giorno passava dalla spiaggia a pavoneggiarsi, a compiacersi e a gonfiarsi come un tacchino, e tutte le smorfiosette se lo rubavano con gli occhi. E anche Galatea. Ogni giorno al tramonto, Galatea, lasciava la spiaggia e sola solinga se ne andava a mettersi s'uno scoglio, un po' più in là. E con Turiddu s'incontravano di nascosto.
Come potrei vivere senza di te? – gli recitava ogni sera Galatea con gli occhi languidi e la voce tremolante e per l'emozione si metteva a piangere. Turiddu ogni volta le rispondeva: Rimani sempre con me, vivremo nella mia capanna nel bosco – e i gabbiani che sorvolano i dintorni, a sentirli dire così si alzano nei cieli più alti e si suicidano lasciandosi precipitare a testa in giù. Ma Galatea e Turiddu si amano e se le loro parole d'amore melenso minacciano l'ecosistema a loro non gl'importa.
Passano i giorni e Polifemo sta tutto il tempo a raccogliere margherite come un citrullo, e a togliere i petali uno a uno con lo sguardo trasognato. Non sa come dire a Galatea che l'ama e si consola con la zampogna, con la poesia cantata, e sodomizzando le sue pecore. Ma un giorno si decide a scendere un'altra volta alla spiaggia, dove tutte le smorfiosette scappano urlando di paura e Galatea invece rimane lì, tranquilla tranquilla, così che Polifemo prende coraggio: Ti amo – dice, con la sua voce ch'era pari al tuonare della terra durante l'eruzione di un vulcano. Galatea immediatamente vomita a due gettate. Poi si mette a piangere: Non posso amarti, Uomo Montagna, c'è già qualcuno che io amo ed è il bellissimo Turiddu, il pastore, che mi sposerà e…
Turiddu? – Polifemo, che sapeva di essere invece brutto come la morte, aveva il cuore in mille pezzi – maledetto Turiddu! – e scappa via verso la sua grotta umida e fognosa.
Non preoccuparti, amore mio – le dice il pastorello sullo scoglio quella stessa sera – niente e nessuno può mai dividerci, perché il nostro amore… – ma un gabbiano che non li sopporta più gli si sfracella proprio di fianco, cercando di ucciderne almeno uno di quei due nel precipitare dai cieli più alti, e Turiddu non riesce a finire la sua bella frase.
Tuuuriiiiiiiiiii! – si sente chiamare, da dietro, come un tuono. Chi è? – dice, e quando si volta si ritrova una bella pietrata in fronte, ed ecco fatto per Salvatore Aci, detto Turiddu. E Galatea si butta in mare dallo scoglio e muore pure lei.
Una storia commovente, no?
Tornando a casa col corpo morto del pastore trascinato dietro, Polifemo sente fin da lontano delle voci nella sua bella caverna umida e fognosa, come un banchettare di stranieri che gli saccheggiano la casa. Cosa c'è, ancora? – si dice, stanco di quella giornata così lunga e faticosa e piena di emozioni. Speriamo – si dice – speriamo almeno che non siano Achei, ma degli ospiti educati…
…e invece sono gli Achei.
(continua…)