“È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita è intraducibile (..) solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.”
Dietro questo parole di Pier Paolo Pasolini, si intravede la sua attenzione al significato di morte che ha da sempre accompagnato la sua vita, le sue opere.
Finché l'uomo vive è inespresso perché ha un futuro, con la morte la vita acquista un senso perché non è più modificabile, è passata.
La morte è necessaria, la morte qualifica la vita dell'uomo come uno specchio in cui l'uomo stesso si riflette e, dialogando con se stesso, trae le somme della propria esistenza.
Ecco quindi che l'idea tutta cattolica di un giudizio finale, appartiene, in forma laica, solo all'uomo, solo a chi, rielaborando le sequenza della vita di chi muore ne trae le conclusioni, rendendolo protagonista del film della sua esistenza.
È tutto racchiuso in quegli istanti che anticipano la fine della vita o l'inizio della morte; perché la morte non è che un inizio verso il ricordo eterno.
Allora forse se Pasolini fosse tra noi descriverebbe la sua vita a partire da quegli ultimi istanti. Prenderebbe tutti i piani sequenza di quell'evento e, mettendoli in coordinamento tra loro da ottimo regista qual'era, trasformerebbe un evento passato in presente, farebbe di una semplice morte la sequenza di un film di vita.
2 novembre 1975. Idroscalo di Ostia (Roma).
Rinvenuto alle 6.30 del mattino il corpo straziato del regista Pier Paolo Pasolini.
Si dichiara unico colpevole il diciassettenne Pino Pelosi che, in seguito alle avances del regista, avrebbe colpito quest' ultimo con un bastone, percuotendolo fino alla morte.
Un ragazzo di 17anni, “un ragazzo di vita”, quella categoria che Pasolini ha sempre posto come protagonista dei suoi film, dei suoi libri.
Morendo Pasolini ha manifestato gli ultimi sintagmi della sua vita, si è espresso con la sua estrema azione: morire per mano di un “ragazzo di vita”, accasciato sulla spiaggia di Ostia, nella periferia di Roma.
È in questa immagine che si racchiude il senso estremo della sua esistenza; in questa immagine c'è tutto: un amore spasmodico per “i ragazzi di vita” sia dal punto di vista intellettuale che sessuale, la sua abitudine ad appartarsi con essi; essere presente in un luogo alla periferia di Roma, la grande città che invade e plasma l'animo dei suoi cittadini, di quel sottoproletariato urbano che Pasolini stesso si interessò a rappresentare per la prima volta nella sua tragica realtà.
Se Pasolini non fosse morto li, in quel luogo e in quelle circostanze, oggi non sarebbe Pasolini.
Anche nella morte egli ha manifestato il desiderio di esprimere il reale, di rappresentare la vita per quella che è.
La sua è la morte di un uomo qualunque e nulla, nella tragicità della sua fine, farebbe pensare ad un grande artista; non c'è nulla di ostentato e celebrativo, c'è solo la povera e tragica fine di un uomo, morto nella violenza prima del tempo.
Ricorda per questo il grande Caravaggio, non a caso tra gli artisti che egli preferiva.
Sono molti i riferimenti del regista a questo grande artista seicentesco che egli imparò a conoscere tra i banchi della facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, città che gli diede i natali.
Attraverso le parole del professor Roberto Longhi, Pasolini apprese i concetti che resero Caravaggio un autore sovversivo, eretico e ribelle rispetto alla sua epoca: la concezione del realismo, l'importanza di una nuova luce quotidiana e drammatica, l'idea di una verità così estrema che confluisce nella morte; tutti concetti che Pasolini rielaborò a suo modo nelle proprie opere e che lo resero un personaggio unico, particolare e talvolta scomodo nella realtà sociale in cui operò.