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Scritto da nel Numero 65 - 1 Dicembre 2009, Politica | 0 commenti

Viaggio nel passato, alla ricerca delle radici mafiose nella mia vita

Viaggio nel passato, alla ricerca delle radici mafiose nella mia vita.
Calabria, la mia Itaca.
Terra selvaggia, aspra, dura. Bella, piena di calore umano, di sorrisi e di sole.
Tristemente abbandonata a se stessa. Tristemente mafiosa.

Ero davvero entusiasta quando mi hanno proposto di scrivere un articolo sulla mafia. Ho subito pensato che da calabrese avrei avuto sicuramente qualcosa da raccontare. Ma non è stato affatto facile. L'ho buttato giù ben due volte questo “benedetto” articolo. Ed entrambe le volte, rileggendolo, mi sono resa conto di avere scritto tantissime banalità o luoghi comuni che rendevano il mio lavoro alquanto inutile, in altre parole privo di spunti concreti che portassero a una riflessione seria sulla mafia.

Noi calabresi però difficilmente ci arrendiamo, siamo testardi e cocciuti. E quindi, lungi da me abbandonare l'idea di scrivere qualcosa sulla mafia, sulla 'ndrangheta, sono andata a vedere l'intervista di Roberto Saviano a “Che tempo che fa”. Il programma di Fabio Fazio dove l'autore di Gomorra è stato ospite qualche settimana fa, uscendo per qualche ora dalla vita blindata a cui è costretto da ormai tre anni, ossia da quando il suo libro l'ha reso celebre in Italia e all'estero. Un capolavoro di denuncia giornalistica che ha esposto l'autore campano a minacce di morte.

E nella puntata di “Che tempo che fa”, mentre Saviano leggeva al pubblico le testate dei giornali campani su omicidi, estorsioni e altre attività illecite firmate Camorra, la prima cosa che ho pensato è che in Calabria fosse diverso. Ossia che la 'ndrangehta non fosse così violenta come la camorra che uccide almeno due o tre persone al giorno. Ma spinta dalla curiosità, quasi a voler dimostrare a me stessa che avessi ragione, mi sono messa a sbirciare le testate dei giornali locali calabresi. Con mio grande rammarico e stupore ho dovuto ricredermi. La cronaca calabrese è quasi identica a quella campana.

Sorvegliati speciali di pubblica sicurezza con l'accusa di tentata estorsione in concorso, maxiprocessi per ipotesi di associazione a delinquere dedita al narcotraffico nel territorio del basso Jonio, favoreggiamento ed estorsione aggravata ai danni di imprenditori del luogo, sequestro di beni al Clan della 'ndrangheta, inchieste per riciclaggio di denaro sporco finito a New York.

Insomma il quadretto calabrese di cronaca locale non è molto dissimile da quello della Campania dell'autore di Gomorra. Mi sbagliavo dunque, eppure adesso viene da chiedermi: perché non posso parlare di mafia come Saviano? Perché non ho uno straccio di notizia interessante con cui riempire quest'articolo pur essendo calabrese?

Allora ho pensato che più che d' 'ndrangheta in quanto organizzazione criminale, forse avrei dovuto fermarmi a riflettere su quello che significa essere calabrese e in quanto tale originaria di un terra associata alle attività mafiose. Mi sono interrogata, ho scavato nella memoria. Volevo capire se semplicemente fosse un argomento su cui non avessi nulla da raccontare, oppure se fosse la prima volta nella mia vita in cui mi trovavo a dover socializzare questo tema.

No. Non è sicuramente la prima volta, ma ho dovuto davvero sforzarmi per ricordare le occasioni tra amici o in famiglia in cui si è affrontato il tema “mafia” in maniera seria, cercando di studiarne le cause, gli effetti e le conseguenze sulle nostre vite. Eppure con quanta facilità ci è capitato di affermare che lo stato di degrado economico, sociale, politico e culturale della Calabria sia collegato alla 'ndrangheta e alla difficoltà di ribellarti.
Ma non bastava scavare dentro di me, ho iniziato a chiedere ai miei amici calabresi. Mi sono resa conto di quanta reticenza esiste nel parlare di questo tema. Mi sono resa conto di quanto l'argomento sia un tabù. E quasi tutti alla domanda “Cosa è la mafia per te?” o “Quale è stata la tua prima conoscenza diretta o indiretta con essa?” si sono un pò irrigiditi. Mi hanno risposto con altre domande. La prima su tutte: “Ma perchè mi fai questa domanda?”. Solo dopo aver spiegato il senso del mio investigare hanno iniziato a rispondermi. Direi preoccupante. Ma significativo. Quasi nessuno di noi sa cosa sia esattamente la 'ndrangheta, ciò nonostante sappiamo benissimo che c'e' e ci siamo cresciuti insieme, dentro. Quello che più conosciamo è la paura, la certezza che è meglio non incontrarla nel nostro cammino. Perché è violenta, ti minaccia e ti uccide se non ti fai gli affari tuoi o non fai quello che i suoi “rappresentanti” ti chiedono.
E questa paura affonda le sue radici nella memoria, tra i ricordi d'infanzia o dell'adolescenza. Quasi tutti noi calabresi ricordiamo almeno un caso di incendio o esplosione di una qualche attività commerciale. È difficile descrivere sensazioni ed emozioni così lontane nel tempo se non appunto quella paura e la consapevolezza che se vuoi aprirti un negozio dalle mie parti devi pagare il pizzo. Io non so nemmeno se sia vero, non so se quel locale commerciale sia saltato in aria per questo motivo, nè se tutti i commercianti pagano il pizzo. Dico solo che questo è quello che mi porto dentro.

Ricordo anche che ci furono un paio di omicidi sempre in quello stesso periodo. Uccisero un tipo mentre era dal barbiere e un altro mentre era in moto. Anche qui i ricordi sono estremamente confusi, ma la paura è sempre lì. I nostri genitori non ci fecero uscire per qualche giorno, parlavano dell'accaduto cercando di non renderci partecipi nella conversazione. Capisci anche che è meglio non fare domande. Anzi, forse le risposte le sai già.
La mafia per me ha iniziato ad esistere in quei giorni. E poi in seguito alla morte di Falcone e Borsellino. È una mafia che si tinge di nero come il negozio bruciato e di rosso come il sangue versato di chi è stato ucciso. Sono i colori della paura che porta con sé l'adeguarsi, l'impotenza e la rassegnazione.

Noi calabresi siamo cresciuti con questi sentimenti. E allora capisci perchè molti di noi ammirano le furbizie, preferiscono vivere al margine della legalità, delle regole; perchè ricorriamo all'aiuto di un “padrino” altrimenti non si va da nessuna parte. Spiega anche perchè andiamo a studiare fuori e non torniamo più. Scappiamo da noi stessi, da quella cultura mafiosa che ci appartiene, quella consapevolezza che se torni in Calabria potresti spingerti oltre quei limiti che ti obbligherebbero a scendere a compromessi.
Eppure la “terra” ce la portiamo nel cuore, non solo nel nostro accento, nel sangue e nei tratti somatici di gente del Sud, ma anche nella sfiducia nelle istituzioni, nel nostro patto di silenzio con la mafia che nasce dal credere che tanto non cambierà mai nulla.
Ma è proprio così che &ldquo
;i mafiosi” vincono, quando iniziamo a disinteressarci del bene pubblico, a disprezzare o aggirare le leggi e regole che governano la convivenza di una società civile, quando soprattutto pensiamo che la mafia non ci riguarda. Invece, ci appartiene, a noi cittadini del Nord e del Sud Italia. A noi esseri umani del Pianeta Terra. Semplicemente a noi, a tutti noi.

Diceva Saviano, “La mia ambizione? Pensare che le parole possano cambiare le cose.” Forse questa è anche la mia piccola ambizione. Magari non proprio cambiare, mi basterebbe che almeno oggi se ne parlasse.

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