Le organizzazioni criminali: lenti e dilemmi
Decine di latitanti e centinaia di affiliati sono stati arrestati, svariati milioni le confische dagli anni ottanta ad oggi. I recenti risultati delle forze di polizia e della magistratura nella lotta alle mafie, fugano il dubbio che oggi le organizzazioni criminali in Italia operino nell’assoluta immunità. Trent’anni fa questi dubbi costituivano un’ amara certezza. Nonostante i risultati rimane ancora oggi insoluto il quesito che, con questo nuovo numero, L’Arengo del viaggiatore propone ai suoi lettori: ‘cosa può spiegare il successo delle mafie?’
Non è difficile, infatti, ammettere che ci troviamo di fronte ad organizzazioni ‘di successo’. Queste riescono insieme a preservarsi nel tempo, superando travagliate transizioni di regime politico, a volte anche l’instaurazione di una democrazia, come nel caso italiano e giapponese. Si diffondono nello spazio, migrando da un paese all’altro, internazionalizzandosi, o ancora divenendo modello organizzativo da imitare per qualunque altra consorteria criminale desiderosa del medesimo status. Un rapido esempio: in Italia pochi crederebbero che una località sciistica, imbiancata dalle nevi, possa essere stata destinataria per ben due volte di un provvedimento di scioglimento del consiglio comunale per grave infiltrazione mafiosa, nel caso specifico per la penetrazione di una ‘Ndrina calabrese. Questo comune non è sull’Aspromonte o alle pendici dell’Etna, ma sulle Alpi: si tratta del comune di Bardonecchia (Torino!).
Chiediamoci quindi se si tratta di solo crimine e profitto, o di altro ancora. Il successo è decretato soltanto dalle pistole e dalla minaccia? Sarebbe riduttivo crederlo. Questi fenomeni si alimentano proprio della difficoltà di isolarne un unico ed esclusivo patrimonio genetico, quello criminale, in quanto contaminati da altri fattori: quello economico, culturale, simbolico, politico.
Violenza, formula organizzativa, simboli e denaro, sono probabilmente gli elementi che ne spiegano il successo, ma allo stesso modo ci avvertono che sarebbe un errore credere che questi attributi siano sufficienti a descrivere il fenomeno. Bisogna intanto fare un passo in avanti, ed evitare di pensare alle organizzazioni criminali come a mere ‘patologie’ della società contemporanea, dunque estirpabili come un qualsiasi altro fenomeno criminale non organizzato, perché considerati ‘corpi estranei’.
Le mafie sono anche un fenomeno socio-politico, sono appunto delle organizzazioni, che in quanto tali si ramificano nel territorio, dispongono di un repertorio d’azione fatto anche di miti e simboli, il cui primo fine è conservarsi, sopravvivere tramite la violenza terroristica (si vedano le stragi degli anni novanta), l’immunità negoziata per decenni col potere ‘legale’, il consenso dei territori controllati.
Per questo le mafie richiedono lenti diversificate con cui essere osservate. Gli articoli successivi propongono alcune soluzioni. Si tratterà forse di paradigmi interpretativi non propriamente inediti, ma non per questo ben conosciuti e divulgati. Servono idee con cui organizzare la mole di informazioni che giornalmente riceviamo da quotidiani e inchieste, per non farsi facilmente ingabbiare o dall’indifferenza, o dall’altrettanto pericolosa deriva complottistica, quella della ‘piovra’, secondo cui tutto – e infine nulla – è mafia.
L’idea principale di questo numero è una. Spiegheremo come probabilmente il successo delle mafie derivi, oltre che da violenza e simboli, da una certa razionalità che guida un agire, quello mafioso, spesso presentato come pre-capitalistico, in un certo senso primitivo perché violento (Gambetta, 1993). Non significa fare un’apologia della mafia, ma, invece, svelare come queste organizzazioni conoscano le regole del mercato, e siano capaci di influenzarne gli equilibri, non solo col denaro o la violenza. Queste apprendono e preferiscono strategie di azione ad altre, nutrendosi delle inefficienze dell’amministrazione dello stato, non soltanto quando quest’ultimo è ‘assente’, ma, molto spesso, quando questo è già presente con regole farraginose, inefficaci e costose.
Proposta l’idea, delimitiamo adesso i confini della nostra analisi. Cosa è la mafia, o per cominciare sarebbe meglio dire, cosa sono le organizzazioni criminali di stampo mafioso? Sono fenomeni, infatti, ambigui già a partire dal termine che si usa per definirli. Questo evoca miti e tragedie, richiamando insieme l’esistenza di codici culturali e società arcaiche, e allo stesso tempo il successo di un’evoluta forma di capitalismo predatorio: facilmente stigmatizzabile se opera entro i confini illeciti del mercato delle droghe o delle estorsioni, ma sempre più spesso seducente quando re-investe i suoi capitali illeciti nell’economia legale.
La natura segreta e sommersa di queste organizzazioni ha fatto sì che sulla sua stessa definizione si sia giocato o meno il riconoscimento della sua esistenza e pericolosità. Certezze che ad oggi ci appaiano incontrovertibili, come l’esistenza di un’organizzazione interna, di pratiche di affiliazione, di ben specifiche catene decisionali e suddivisioni del territorio, fino a trenta anni fa non erano riconosciute unanimemente dall’ordinamento, dalla magistratura, dalla politica nazionale. Prevaleva un’immagine della mafia come sub-cultura mossa dalla ricerca di valori arcaici. l’onore, la famiglia, una forma di giustizia (sic!!) sociale. Valutazioni come quelle di un Procuratore generale della Corte di Cassazione esternate nel 1955 non erano isolate, ma godranno di un perdurante consenso.
«Si è detto che la mafia disprezza la politica e magistratura: è un’insensatezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge […] ha affiancato addirittura le forze dell’ordine» (in Gambetta, 1993).
Bisognerà attendere gli anni ottanta, i barbari omicidi mafiosi, il pentitismo e il Maxi-processo, affinché si riconoscesse alla mafia un’organizzazione, tangibile e identificabile, finalmente sanzionabile grazie alla legge 646/82 ‘Rognoni-La Torre’, e all’introduzione del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso (art. 416 bis).
Il cambiamento di paradigma interpretativo con cui si guardava alle mafie è stato possibile anche grazie al contributo delle scienze sociali. La stessa sociologia che per quarant’anni aveva negato l’esistenza di un’organizzazione formale (Hess, 1973; Blok, 1974; Schneider e Schneider, 1976, Arlacchi, 1983), nei suoi studi dei primi anni ottanta formalizza l’esistenza di specifiche forme organizzative nelle mafie, e di modalità di interazione con le altre sfere della società e delle istituzioni statali.
Queste analisi segnano il superamento di questa prima letteratura dominata da approcci di analisi culturale e sociale, che seppur validi, non avevano esaurito la portata analitica di questi fenomeni. Agli studi storici, si aggiungano approcci trasversali e interdisciplinari che riescono ad analizzare l’eterogenea fisionomia delle organizzazioni criminali ricorrendo a strumenti di ricerca sociologica (Arlacchi, 1980 e 1992; Pizzorno, 1987; Catanzaro, 1992; Sciarrone, 1998; Paoli, 2000), economica (Gambetta, 1993; Fiorentini e Peltzman, 1995; La Spina, 2008) e insieme neo-istituzionale (Vannucci, 2001), o partendo dagli studi delle organizzazioni (La Spina, 2005). Alcuni studi hanno proposto l’applicazione del modello analitico eastoniano di ‘sistema’ alle organizzazioni mafiose (Armao, 2000); od ancora attraverso dei casi studio, si sono concentrati sui legami strutturali tra dinamiche clientelari, sistema diffuso di corruzione degli apparati politici ed amministrativi locali, ed organizzazioni criminali (Chubb, 1982; Caciagli et al., 1977); oppure sull’economia del racket (Cazzola, 1992; Asmundo e Lisciandra, 2008), o degli appalti pubblici (Vannucci, 2007); o attraverso alcune analisi dell’elettorato e dell’evoluzione delle preferenze elettorali in alcune regioni ad alta concentrazione criminale, come nel caso della Sicilia (Morisi et al., 1993; Mastropaolo, 1993), o nel celebre studio di Percy Allum sulla Napoli del dopoguerra (Allum, 1973).
I primi studi degli anni ottanta e novanta si riveleranno fondamentali nello svolgimento del primo grande processo alla Cosa Nostra siciliana, tanto che i loro autori diverranno bersaglio della stessa organizzazione. È celebre l’accusa di Totò Riina a Pino Arlacchi, sociologo della mafia: «C’è chi manovra i pentiti, e questo Arlacchi che scrive libri».
Servono libri e idee nella lotta alla criminalità, oltre che inchieste giornalistiche e indagini giudiziarie. L’analisi delle scienze sociali sui fenomeni criminali ha svolto un’indispensabile funzione di supporto all’accertamento giudiziario delle responsabilità, con non poche contro-indicazioni. Le diverse lenti analitiche spesso ci restituiscono un’immagine della mafia non sempre completa, ma certamente più distinta rispetto a un fenomeno dai molti segreti e maschere.
Le mafie vanno dunque studiate, e allo stesso tempo bisogna stare attenti, in quanto la storia italiana ha dimostrato che l’imporsi di un particolare paradigma esplicativo ha avuto ricadute dirette nelle politiche legislative e giudiziarie di lotta alla criminalità. Sono lenti da maneggiare con cura, alla prova di un fenomeno così complesso.
Non è difficile, infatti, ammettere che ci troviamo di fronte ad organizzazioni ‘di successo’. Queste riescono insieme a preservarsi nel tempo, superando travagliate transizioni di regime politico, a volte anche l’instaurazione di una democrazia, come nel caso italiano e giapponese. Si diffondono nello spazio, migrando da un paese all’altro, internazionalizzandosi, o ancora divenendo modello organizzativo da imitare per qualunque altra consorteria criminale desiderosa del medesimo status. Un rapido esempio: in Italia pochi crederebbero che una località sciistica, imbiancata dalle nevi, possa essere stata destinataria per ben due volte di un provvedimento di scioglimento del consiglio comunale per grave infiltrazione mafiosa, nel caso specifico per la penetrazione di una ‘Ndrina calabrese. Questo comune non è sull’Aspromonte o alle pendici dell’Etna, ma sulle Alpi: si tratta del comune di Bardonecchia (Torino!).
Chiediamoci quindi se si tratta di solo crimine e profitto, o di altro ancora. Il successo è decretato soltanto dalle pistole e dalla minaccia? Sarebbe riduttivo crederlo. Questi fenomeni si alimentano proprio della difficoltà di isolarne un unico ed esclusivo patrimonio genetico, quello criminale, in quanto contaminati da altri fattori: quello economico, culturale, simbolico, politico.
Violenza, formula organizzativa, simboli e denaro, sono probabilmente gli elementi che ne spiegano il successo, ma allo stesso modo ci avvertono che sarebbe un errore credere che questi attributi siano sufficienti a descrivere il fenomeno. Bisogna intanto fare un passo in avanti, ed evitare di pensare alle organizzazioni criminali come a mere ‘patologie’ della società contemporanea, dunque estirpabili come un qualsiasi altro fenomeno criminale non organizzato, perché considerati ‘corpi estranei’.
Le mafie sono anche un fenomeno socio-politico, sono appunto delle organizzazioni, che in quanto tali si ramificano nel territorio, dispongono di un repertorio d’azione fatto anche di miti e simboli, il cui primo fine è conservarsi, sopravvivere tramite la violenza terroristica (si vedano le stragi degli anni novanta), l’immunità negoziata per decenni col potere ‘legale’, il consenso dei territori controllati.
Per questo le mafie richiedono lenti diversificate con cui essere osservate. Gli articoli successivi propongono alcune soluzioni. Si tratterà forse di paradigmi interpretativi non propriamente inediti, ma non per questo ben conosciuti e divulgati. Servono idee con cui organizzare la mole di informazioni che giornalmente riceviamo da quotidiani e inchieste, per non farsi facilmente ingabbiare o dall’indifferenza, o dall’altrettanto pericolosa deriva complottistica, quella della ‘piovra’, secondo cui tutto – e infine nulla – è mafia.
L’idea principale di questo numero è una. Spiegheremo come probabilmente il successo delle mafie derivi, oltre che da violenza e simboli, da una certa razionalità che guida un agire, quello mafioso, spesso presentato come pre-capitalistico, in un certo senso primitivo perché violento (Gambetta, 1993). Non significa fare un’apologia della mafia, ma, invece, svelare come queste organizzazioni conoscano le regole del mercato, e siano capaci di influenzarne gli equilibri, non solo col denaro o la violenza. Queste apprendono e preferiscono strategie di azione ad altre, nutrendosi delle inefficienze dell’amministrazione dello stato, non soltanto quando quest’ultimo è ‘assente’, ma, molto spesso, quando questo è già presente con regole farraginose, inefficaci e costose.
Proposta l’idea, delimitiamo adesso i confini della nostra analisi. Cosa è la mafia, o per cominciare sarebbe meglio dire, cosa sono le organizzazioni criminali di stampo mafioso? Sono fenomeni, infatti, ambigui già a partire dal termine che si usa per definirli. Questo evoca miti e tragedie, richiamando insieme l’esistenza di codici culturali e società arcaiche, e allo stesso tempo il successo di un’evoluta forma di capitalismo predatorio: facilmente stigmatizzabile se opera entro i confini illeciti del mercato delle droghe o delle estorsioni, ma sempre più spesso seducente quando re-investe i suoi capitali illeciti nell’economia legale.
La natura segreta e sommersa di queste organizzazioni ha fatto sì che sulla sua stessa definizione si sia giocato o meno il riconoscimento della sua esistenza e pericolosità. Certezze che ad oggi ci appaiano incontrovertibili, come l’esistenza di un’organizzazione interna, di pratiche di affiliazione, di ben specifiche catene decisionali e suddivisioni del territorio, fino a trenta anni fa non erano riconosciute unanimemente dall’ordinamento, dalla magistratura, dalla politica nazionale. Prevaleva un’immagine della mafia come sub-cultura mossa dalla ricerca di valori arcaici. l’onore, la famiglia, una forma di giustizia (sic!!) sociale. Valutazioni come quelle di un Procuratore generale della Corte di Cassazione esternate nel 1955 non erano isolate, ma godranno di un perdurante consenso.
«Si è detto che la mafia disprezza la politica e magistratura: è un’insensatezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge […] ha affiancato addirittura le forze dell’ordine» (in Gambetta, 1993).
Bisognerà attendere gli anni ottanta, i barbari omicidi mafiosi, il pentitismo e il Maxi-processo, affinché si riconoscesse alla mafia un’organizzazione, tangibile e identificabile, finalmente sanzionabile grazie alla legge 646/82 ‘Rognoni-La Torre’, e all’introduzione del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso (art. 416 bis).
Il cambiamento di paradigma interpretativo con cui si guardava alle mafie è stato possibile anche grazie al contributo delle scienze sociali. La stessa sociologia che per quarant’anni aveva negato l’esistenza di un’organizzazione formale (Hess, 1973; Blok, 1974; Schneider e Schneider, 1976, Arlacchi, 1983), nei suoi studi dei primi anni ottanta formalizza l’esistenza di specifiche forme organizzative nelle mafie, e di modalità di interazione con le altre sfere della società e delle istituzioni statali.
Queste analisi segnano il superamento di questa prima letteratura dominata da approcci di analisi culturale e sociale, che seppur validi, non avevano esaurito la portata analitica di questi fenomeni. Agli studi storici, si aggiungano approcci trasversali e interdisciplinari che riescono ad analizzare l’eterogenea fisionomia delle organizzazioni criminali ricorrendo a strumenti di ricerca sociologica (Arlacchi, 1980 e 1992; Pizzorno, 1987; Catanzaro, 1992; Sciarrone, 1998; Paoli, 2000), economica (Gambetta, 1993; Fiorentini e Peltzman, 1995; La Spina, 2008) e insieme neo-istituzionale (Vannucci, 2001), o partendo dagli studi delle organizzazioni (La Spina, 2005). Alcuni studi hanno proposto l’applicazione del modello analitico eastoniano di ‘sistema’ alle organizzazioni mafiose (Armao, 2000); od ancora attraverso dei casi studio, si sono concentrati sui legami strutturali tra dinamiche clientelari, sistema diffuso di corruzione degli apparati politici ed amministrativi locali, ed organizzazioni criminali (Chubb, 1982; Caciagli et al., 1977); oppure sull’economia del racket (Cazzola, 1992; Asmundo e Lisciandra, 2008), o degli appalti pubblici (Vannucci, 2007); o attraverso alcune analisi dell’elettorato e dell’evoluzione delle preferenze elettorali in alcune regioni ad alta concentrazione criminale, come nel caso della Sicilia (Morisi et al., 1993; Mastropaolo, 1993), o nel celebre studio di Percy Allum sulla Napoli del dopoguerra (Allum, 1973).
I primi studi degli anni ottanta e novanta si riveleranno fondamentali nello svolgimento del primo grande processo alla Cosa Nostra siciliana, tanto che i loro autori diverranno bersaglio della stessa organizzazione. È celebre l’accusa di Totò Riina a Pino Arlacchi, sociologo della mafia: «C’è chi manovra i pentiti, e questo Arlacchi che scrive libri».
Servono libri e idee nella lotta alla criminalità, oltre che inchieste giornalistiche e indagini giudiziarie. L’analisi delle scienze sociali sui fenomeni criminali ha svolto un’indispensabile funzione di supporto all’accertamento giudiziario delle responsabilità, con non poche contro-indicazioni. Le diverse lenti analitiche spesso ci restituiscono un’immagine della mafia non sempre completa, ma certamente più distinta rispetto a un fenomeno dai molti segreti e maschere.
Le mafie vanno dunque studiate, e allo stesso tempo bisogna stare attenti, in quanto la storia italiana ha dimostrato che l’imporsi di un particolare paradigma esplicativo ha avuto ricadute dirette nelle politiche legislative e giudiziarie di lotta alla criminalità. Sono lenti da maneggiare con cura, alla prova di un fenomeno così complesso.