Generazione Impastato
La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, avrà anche una fine, piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l'eroismo dai nervi cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori.
Giovanni Falcone
In Italia, più che in altri paesi, la lotta alla criminalità organizzata ha preso le forme di una rappresentazione epica: una guerra del bene contro il male, in cui coloro che hanno affrontato, o affrontano, le mafie, vengono raccontati come tanti minuscoli David che con un sasso e una fionda (a volte con le parole e un libro) pretendono di sfidare un gigantesco e multiforme Goliath.
Nel lavoro di documentazione per la preparazione di questo numero, mi sono imbattuto in una mole infinita di materiale: video dedicati a Falcone e Borsellino, a Pino Puglisi, a Peppino Impastato a Libero Grassi, presentazioni di associazioni, movimenti, coordinamenti di cittadini, fiaccolate, manifestazioni e documentari. Quello che mi ha stupito di più sono stati i tanti contributi lasciati sulla rete da migliaia di privati cittadini. Questo enorme movimento civico mi è sembrato come una prova del fatto che la cultura dell'antimafia è diventata parte integrante della morale nazionale.
Detta così, sembra una cosa banale, eppure non è sempre stato così: a farmelo pensare fu uno degli ultimi interventi pubblici di Paolo Borsellino, in un discorso pronunciato pochi giorni dopo la strage di Capaci: “la lotta alla mafia, il primo problema da risolvere, nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, egli mi disse: “la gente fa il tifo per noi”. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione da al lavoro del giudice, significava qualcosa di più… significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze”.
Con queste parole Borsellino ci lasciò testimonianza di un qualcosa di cui si sentiva la necessità e che evidentemente non c'era. Ma cosa mancava realmente? Non si può dire che il tema della Mafia non fosse stato trattato: già negli anni '60 Leonardo Sciascia aveva scritto i primi romanzi, e registi del calibro di Francesco Rosi, avevano girato dei film. Si trattava comunque di prodotti di nicchia. Il palesamento popolare avvenne agli inizi degli anni '80, quando film come Cento giorni a Palermo e una serie televisiva come La Piovra, mostrarono il fenomeno anche a coloro che non ne avevano mai sentito parlare. La guerra di mafia e le vicende del maxi-processo fecero il resto, facendo diventare la cosa di dominio pubblico.
Ciò che mancava realmente era la reazione della società civile.
Falcone e Borsellino, furono consapevoli fin dall'inizio che la lotta contro la Mafia non poteva limitarsi alla repressione giudiziaria, ma doveva tradursi in un movimento culturale e sociale che minasse direttamente le basi della cultura mafiosa. La mafia era un parassita che non si poteva eliminare tagliando i rami della pianta, ma facendo in modo che la pianta producesse da sola gli anticorpi per eliminarlo.
Il 1992 segnò uno spartiacque tra il prima e il dopo: la spettacolarità delle stragi di Palermo, le scene dei funerali dei giudici, le manifestazioni di una città che per la prima volta protestava contro la mafia (scene che ognuno di noi porta impresse nella memoria), portarono il tema dell'antimafia al centro della morale nazionale. Le stragi che colpirono tutta la penisola negli anni successivi non fecero altro che alimentare una reazione già in atto.
La morte di Falcone e Borsellino, produsse ciò che gli stessi magistrati avevano cercato: fu l'evento scatenante che portò alla nascita di una cultura dell'onestà e della legalità che ha unito tutto il paese. A dimostrarlo sono associazioni come Libera, (nata nel 1995, che conta con oltre 1300 gruppi sparsi in tutta Italia), come Addio Pizzo (nata a Palermo nel 2004 e diffusasi in tutta la Sicilia), come “E adesso ammazzateci tutti” (nata a Locri nel 2005 dopo l'assassinio di Francesco Fortugno). Lo dimostra la recente partecipazione di massa alla “Manifestazione dell'Agenda Rossa”, per la verità sulle stragi. Lo dimostra la partecipazione e l'appoggio che milioni di persone continuano a dare a Saviano, facendo diventare la sua vita una questione nazionale. Lo dimostrano centinaia e centinaia di piccoli movimenti che non posso citare per ragioni di spazio, ma che meriterebbero di essere raccontati. Ulteriore dimostrazione di questa “rivoluzione culturale” fu la maggiore attenzione da parte del mondo del cinema e della televisione. Il tema è stato trattato da tutti i punti di vista possibili: non solo si è parlato di Falcone e Borsellino, ma si fecero film sulle scorte, sui collaboratori, sui giudici vari che persero la vita, su pentiti e testimoni. Vennero recuperate le storie di “antichi martiri” come Placido Rizzotto, Pio La Torre, Peppino Impastato, Roberto Siani. Vennero fatti film anche sulla mafia e sui mafiosi, creando quel mito dell'uomo d'onore, di cui, in questo numero, ci parla Alberto Miti.
Questi uomini, questi eroi borghesi, hanno fatto da modello alle generazioni degli anni '80 e '90. Una generazione antimafia, che a me però, piace chiamare “Generazione Impastato”, perché il film I cento passi ha commosso i ragazzi del Sud come quelli del Nord, senza distinzione regionale. Basta pensare alla reazione di tanti giovani quando qualche mese fa un sindaco leghista tolse, dalla biblioteca del suo paese, un targa dedicata a Peppino Impastato. La cultura dell'antimafia è diventata un elemento comune del sentire nazionale. Questa è una cosa alla quale dovremmo pensare ogni volta che sentiamo qualcuno denunciare l'apatia e la superficialità della cultura giovanile contemporanea.
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