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Scritto da nel Internazionale, Numero 63 - 1 Ottobre 2009 | 0 commenti

Business is business. La penetrazione cinese in Africa

«Business is business. Noi proviamo a separare la politica dagli affari». Le parole dell'Ambasciatore Plenipotenziario della Repubblica Popolare cinese negli Stati Uniti Zhou Wenzhong, esprimono efficacemente l'azione di Pechino nei mercati internazionali. Eppure, sessant'anni fa, in pochi avrebbero immaginato che un giorno uno dei più importanti uomini della diplomazia cinese avesse fatto delle simili dichiarazioni. Oggi, nessuno si stupisce, specie se si parla di rapporti tra Cina e Africa.

I primi contatti fra Pechino e il Continente Nero risalgono agli anni Sessanta, decennio in cui la maggior parte degli stati africani ottenne l'indipendenza. Allora gli interessi cinesi erano fondamentalmente di carattere diplomatico: soprattutto convincere i neonati stati africani a riconoscere una sola Cina, quella rappresentata dal governo di Pechino e non da quello di Taipei, al fine di isolare Taiwan, in particolare in ambito ONU. Negli anni Ottanta il coinvolgimento cinese in Africa non poteva competere con i programmi d'aiuto e gli investimenti dei Paesi Occidentali. Nel XXI secolo la Cina torna nel Continente nero non solo per saziare la propria sete di risorse naturali e per dare ulteriore slancio alle esportazioni, ma anche per giocare un ruolo da protagonista assoluto nell'assistenza agli stati africani costruendo infrastrutture d'ogni tipo (porti, aeroporti, ponti, strade, edifici governativi, impianti sportivi, ospedali) e con cospicui aiuti economici senza condizioni politiche, ossia senza pretendere il rispetto dei diritti umani.

Il piano d'azione per l'Africa, annunciato nel 2006 dal presidente cinese Hu Jintao, è impressionante: 10 miliardi di dollari per incoraggiare le imprese cinesi ad investire in Africa e scambi commerciali per un valore totale di 110 miliardi di dollari entro il 2010. Molti investimenti passano attraverso le aziende pubbliche in modo tale da non dover essere subito redditizi se, in seguito, possono giovare all'economia cinese in generale. Ad esempio, in Etiopia aziende pubbliche di costruzioni hanno partecipato a numerosi appalti senza badare al profitto, perché la scommessa di Pechino qui è avere accesso, un domani, alle risorse naturali. In altri casi la Cina stanzia aiuti ed esporta tecnologie solamente in ottica di lungo periodo.

Il Sudan rappresenta il più chiaro esempio dell'approccio cinese in Africa: il gigante asiatico ha offerto soldi, consulenza tecnica e appoggio diplomatico in varie istituzioni internazionali, ivi compreso il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, al fine di proteggere il Paese ospite dalle sanzioni internazionali. Così è diventata il principale investitore in Sudan nell'industria petrolifera, approfittando del fatto che le compagnie occidentali, in particolare quelle americane e canadesi, hanno lasciato il Paese, a causa della guerra civile e delle accuse di schiavismo e persecuzione ai danni della popolazione locale. Instabilità e guerra civile non sono fattori che hanno inibito l'aggressivo capitalismo di Pechino, che non ha risparmiato fondi neppure in Paesi dove la situazione politica e sociale è particolarmente delicata nonché troppo pericolosa per i Paesi occidentali, come la Sierra Leone o la Repubblica “Democratica” del Congo. L'indifferenza cinese verso la questione del rispetto dei diritti umani è illustrata in maniera lampante dall'appoggio di Pechino al regime di Robert Mugabe: egli ha aperto le porte dello Zimbawe alle imprese cinesi facilitandole in ogni modo, in cambio di armi e appoggio diplomatico (in questo caso però non bisogna dimenticare che la Cina ha sostenuto Mugabe sin dai tempi del Movimento di Liberazione per l'indipendenza del Paese negli anni Sessanta).

Gli investimenti cinesi stanno così mutando il paesaggio africano cambiando la vita alla popolazione locale che può ora comprare scarpe, vestiti, televisione o anche sapone a basso costo. L'elite politica degli stati africani, specie la più discussa e spregiudicata, accoglie a braccia aperte il gigante d'Asia, stordita dall'enorme quantità di capitali che la Repubblica Popolare è disposta a elargire senza condizioni che possono risultare “fastidiose” (eccetto appunto quella di riconoscere un'unica Cina e non avere quindi rapporti con Taiwan) come il rispetto dei diritti umani o la messa al bando del mercato clandestino d'armi. Inoltre Hu Jintao ha ribadito l'appoggio all'Unione Africana affinché il Continente possa ottenere una rappresentanza permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

D'altronde, l'arrivo della merce cinese a basso costo sta abbattendo l'economia locale, in particolare nel settore tessile, generando disoccupazione e malcontento nella popolazione. Ma questo non è l'unico effetto collaterale provocato dall'invasore asiatico. A proposito di diritti umani, gli investimenti hanno portato con loro cospicue comunità di emigranti cinesi, più di un milione concentrati soprattutto in Sudafrica, Angola, Sudan e Algeria, che lavorano in condizione di semischiavitù. Per non parlare dello spietato impatto del capitalismo cinese sull'ambiente africano: l'imprenditore di Pechino è lontano anni luce dal concetto di sviluppo ecologicamente sostenibile e il rispetto dell'ambiente è certamente l'ultima delle sue preoccupazioni. E questo non sembra turbare i governanti locali.

Del resto noi occidentali non dovremmo stupirci né irritarci più di tanto per il comportamento senza scrupoli degli investitori cinesi in Africa. In primo luogo perché è paradossale aspettarsi un comportamento virtuoso all'estero da parte di chi, in patria, nega sfacciatamente i diritti umani e distrugge l'ambiente del suo stesso territorio rendendolo quasi invivibile. In secondo luogo poiché i nostri Governi, a livello diplomatico, non osano obiettare alcunché al gigante asiatico, credendo gli aspetti commerciali ed economici assolutamente prioritari rispetto a quello dei diritti fondamentali dell'uomo. Infine perché i Paesi Occidentali ieri come oggi non si sono fatti più scrupoli dei cinesi nel depredare il territorio africano. «Business is business»: in Africa (e non solo) è valso e vale anche per noi.

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