Disegna una mappa per perderti
(“Disegna una mappa per perderti”[1])
L’arte contemporanea vive e vegeta senza alcuna preoccupazione grazie soprattutto alla convinzione, diffusa in quel grottesco salotto di critici e presunti artisti, che ritiene che l’arte dei nostri giorni non sia comprensibile ai più.
La loro presunzione di superiorità e l’umiltà del curioso s’incontrano in un pannello illustrativo dove parole in libertà si sbrigliano cercando molto debolmente di mostrare degli anelli di congiunzione, dei connettori che possano dare qualche input per una “corretta” lettura dell’opera.
Il curioso, in quanto tale, cerca di stimolare delle sinapsi ma gli input gli paion così flebili che passa oltre (senza considerare il fatto che l’opera d’arte debba parlare da sé, o per lo meno debba mandare degli input a prescindere da informazioni aggiuntive).
Un’ opera artistica è un’epifania ed in quanto tale deve ammaliare, fungere da polo magnetico per il fruitore che (magari inconsapevolmente in un primo momento) dovrebbe scorgervi qualcosa del mondo in cui vive o non vive. I suoi sensi, le sue paure, le sue ipotesi di futuro che normalmente cerca di tenere ben lontani dagli altri e da sé vengono d’improvviso palesate nel frutto di una creazione artistica.
Venezia, 7 giugno- 22 novembre 2009. È in corso negli spazi dell’arsenale, dei giardini ed in altri luoghi della città, la 53. Esposizione Internazionale d’Arte, diretta da David Birnbaum, dal titolo Fare Mondi.
La capacità di sintesi nasce quando una miriade di “oggetti/informazioni” s’affolla nella nostra mente.
Disseminati fra un revival di nuovi dadaisti, nuovi futuristi e altri nuovi “artisti” che rivisitano modalità espressive del passato, scorgiamo, allora, i “mondi” più interessanti.
Partiamo dalla prima opera che ci appare nel percorso espositivo dell’arsenale: un intrigo di preziosi fasci luminosi ricavati dall’accostamento certosino di fili di rame e d’oro, ci mostrano il mondo impalpabile della brasiliana Ligya Pape.
Ispessiamo maggiormente i fili e sostituiamoli con un materiale più povero quale la corda. Rimescoliamo anche le forme, rendiamole più morbide, più circolari, e tessiamo una complessa e solida tela proprio come farebbe una vedova nera. Leonardo da Vinci insegna che la natura è la più grande maestra di sperientia e di certo l’argentino Tomas Saraceno è ben consapevole di questa lezione.
Ma dilatiamo maggiormente l’atmosfera, rendiamola più rarefatta, più impalpabile, entriamo in contatto con la parte più intima ed infantile di noi stessi… solo così possiamo apprezzare al meglio il mondo che ci ha preparato Hans- Peter Feldmann: una stanza buia nella quale danzano alcuni giocattoli roteando come dei dervisci anelando il mondo magico dell’infanzia.
Rimaniamo in un’iconografia tipica dell’età fanciullesca ossia quella dei cartoons, ma incattiviamo le trame delle loro storie creando un giusto equilibrio tra il fantastico che lascia tuttavia trapelare un forte realismo nelle citazioni. Rendiamo i movimenti dei pupazzetti in plastilina più macchinosi mediante la tecnica della stop- motion e immergiamoci in quei paradisi terrestri ormai vittime di corruzione e decadimento. Le carne cade a brandelli, è quasi una prigione per i protagonisti delle creazioni della svedese Nathalie Djuberg. L’allestimento del suo spazio è curato nei minimi dettagli: si entra in un ambiente scuro dove enormi fiori dall’aspetto poco rassicurante germogliano dal pavimento. Tra la vegetazione inquietante spuntano qua e là tre schermi che proiettano in loop i film in claymotion della Djuberg. Fondamentale per una completa fruizione delle opere sono le musiche che rimandano ad atmosfere sacrali che tuttavia non riescono a trattenere la loro seriosità e scoppiano inevitabilemente in un “riso sotto i baffi”. L’autore, il connazionale Hans Berg.
La freschezza del suo spazio ha portato la Djuberg a vincere il leone d’argento, mentre le acrobazie mentali dei Koan di Yoko Ono salgono sul podio con l’oro alla carriera lasciandoci lo stato di grazia del satori.
Il caldo inizia a farsi sentire quindi “alziamo il passo” e attraversiamo un villaggio africano tra gli schermi che ci rimandano a scene di lavori più o meno leciti ritagliati dai vari continenti. C’è chi come il belga Jef Geys ipotizza una “quadra medicinale”, ovvero un quadrato di 1-2 km, realizzato nelle varie città, dove far crescere piante medicinali; chi invece come “mr. B.” si suicida in piscina assuefatto dagli spazi zen della sua casa. Spazi ultra essenziali, dove la natura s’insinua persino in bagno… dinanzi a cotanto zen anche la morte perde la sua tragicità.
A conclusione di questo sintetico tour due visioni puramente luminose: la prima è quella dell’italiana Grazia Toderi con le sue riprese aeree di stadi, città che diventano semplici pannelli luminosi spalmati su di un telo; la seconda è quella del cinese Chu Yun dove le lucine che illuminano il suo spazio buio non sono proiettate su di uno schermo, ma costituiscono l’ambiente da attraversare. Solo quando ci avviciniamo alle luci scopriamo che in realtà appartengono ai numerosi elettrodomestici che riempiono le nostre case. Uno zen hipertech.