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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 61 - 1 Luglio 2009 | 0 commenti

Una Comica – The catcher in the rye

Una Comica

dopo Huckleberry Finn: The Catcher in the Rye

G’night. G’night, Sally baby. Sally Sweethart
darling – I said. Can you imagine how drunk I was?

(The Catcher in the Rye)

Si quieres a una Diòsa, ganala siendo un hombre; y si quieres a la Poesìa, ganala desde la sangre – scrive Julio Cortazar commentando John Keats in uno dei suoi primi libri (Imagen de John Keats – un libro così bello ch’è quasi illeggibile) e così pensavo io pure, e sarebbe a dire: è nella concretezza che trovi la grande poesia. Mi sono trovato poi a leggere The Adventures of Huckleberry Finn, subito dopo, e quest’idea s’è un po’ sfumata.  
 

  Le cose mi sono andate così, che fino alle ultime pagine io c’avevo in testa il ritornello si quieres la poesia, ganala con la sangre come sottolineando ogni frase che leggo – e soprattutto nei capitoli finali, quando entra in scena Tom Sawyer a sorpresa. Mark Twain ci prende in giro, però: è nel finale che sconvolge tutto. Sembra che Huckleberry sia quello pienamente intelligente, ben ancorato alla realtà, e sembra che Tom Sawyer sia una specie di Don Quijote infantile che non si rende conto della gravità della situazione. In breve, questa è la storia: Huckleberry Finn a tredici anni scappa dalla violenza di suo padre e ce la mette tutta per liberare un suo amico ch’è uno schiavo negro: percorrono il fiume Mississippi per raggiungere uno Stato lì vicino dove in genere vanno a stare gli schiavi in fuga, e ce l’hanno quasi fatta – quando arriva Tom Sawyer e vuole trasformare tutto in un’ Avventura: studia i dettagli per far tutto più complicato, come per rivivere per finta le trame dei libri che legge – e qui uno pensa: Ma che imbecille! – si prende pure una fucilata in una gamba a fare il cretino (ed è felicissimo, perché l’Avventura è ancora più avventurosa se c’è del sangue). Ma la realtà è ben diversa: Tom Sawyer è l’unico a saperlo, ma lo schiavo è già libero. Non c’è pericolo, quindi. Anzi è talmente semplice che bisogna metterci un po’ di sale, altrimenti che gusto c’è? – e s’inventa un’Avventura delle sue da libro per ragazzi.  
 

  Lo schiavo è libero perché la negriera è morta e nel testamento l’ha liberato. Questo è un dettaglio che fino all’ultimo Tom Sawyer (e Mark Twain) si tiene per sé, in modo da vivere e far vivere una situazione avventurosa, qualcosa d’indimenticabile (lo stesso fa Mark Twain con il lettore). Quindi non è un incosciente: conosce bene la realtà, la concretezza (anzi è l’unico che la conosce, fra i tre) e sceglie di giocare, di aggiungere (e non: sostituire) una fantasia alla realtà, la Poesia al sangue.  
 

  Il guaio di Huckleberry Finn è che non sa giocare, come pure Holden Caulfield, personaggio di un altro libro molto simile a questo: The Catcher in the Rye. Non sono così diversi Huckleberry e Holden, e nemmeno sono così diversi i due libri; in entrambi c’è un personaggio di cui si parla molto e che compare alla fine (Tom Sawyer e Phoebe la sorella di Holden) e che incarnano una salvezza dalla prigionia mentale del troppo realismo e dalla prigionia mentale della solitudine. In entrambi i libri due adolescenti scrivono nel loro dialetto, dal loro punto di vista, e in entrambi i libri si tratta di un’infanzia rubata e violata – anche se da due forme di violenza diverse, ma riconducibili a una sola: l’educazione. C’è il vagabondaggio, la fuga, il nascondersi, (il Mississippi in zattera è così diverso dalla New York in taxy?), il dare continuamente una falsa identità, le due frasi di congedo così risonanti (‘Trouly yours’ e ‘I wish you could’ve been there’). E sono due libri umoristici, anzi direi due comiche, che appartengono a uno stesso filone letterario: Twain e Salinger stanno aggiungendo delle frasi a un discorso antico, il discorso di Apuleio e Petronio, Cervantes e Manzoni, ma pure Buster Keaton e Charlie Chaplin: chi meglio di Keaton avrebbe potuto, da giovane, interpretare Holden Caulfield? – perché se leggi The Catcher in the Rye senza metterlo al suo posto è come ascoltare solo le ultime frasi di un discorso e non ci si capisce niente. O, forse ancora più facile: si fraintende. Arrivi a una tavolata all’ultimo, con i piatti sporchi quando tutti prendono il caffè, uno dice una battuta e tu non capisci perché tutti stanno ridendo. Se invece metti il libro al suo posto (e il suo posto gliel’ha dato l’autore con un immediato collegamento intertestuale nell’incipit, così simile a quello di The Adventures of Huckleberry Finn*), The Catcher in the Rye è una divertentissima comica, mica un libro tormentoso e intellettualoide.  
 

  Un altro indice del posto in cui l’autore ha messo il libro sono i continui inciampi di Holden: questo ragazzo nei suoi pensieri e ragionamenti è un filosofo delle altezze, ma poi inciampa e si ritrova per terra. Come un clown che si dà un certo contegno e proprio quando sembra uscirne come un principe, con eleganza, s’inciampa in un gradino. Una comica, insomma. C’è poi chi invece lo ha preso come una bandiera della generazione di gente che non ci sta e che non vuole arrendersi al sistema o a un certo tipo di vita che gli viene proposto. Il che ha pure un suo lato comico: come qualcuno che non ha capito che Chaplin nel suo personaggio è un clown e lo prende a esempio o come riferimento generazionale: ancora una comica, di secondo grado. 
 

  The Catcher in the Rye è la bandiera di una certa protesta? Il mio consiglio è: rimettiamolo al suo posto e rileggiamolo: è una comica.

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