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Scritto da nel Il Mondo nel Pallone, Numero 61 - 1 Luglio 2009 | 0 commenti

Perversioni regolamentari

Il campionato di Formula 1 ci ha posto un problema di regolamentazione dei mercati.

Sulla scena si sono confrontati:
- un regolatore, la Federazione Internazionale dell'Automobile, da sempre promotore della Formula 1 e dell'automobilismo mondiale rappresentata da Max Mosley
- i giocatori/attori riuniti dalla Ferrari sotto le insegne della Fota
- un gestore del business, la società di Ecclestone.
Inoltre il nostro punto di vista di italiani prevede il filtro dei nostri media, schierati fin dall'inizio dalla parte della Ferrari.


La questione in ballo è il regolamento del campionato 2010 ed in particolare il budget cap: secondo la FIA, l'attuale contesto di crisi economica e del mercato dell'auto avrebbe giustificato l'imposizione di un tetto alle spese dei team. Tale contenimento dei costi avrebbe consentito di ampliare il numero di scuderie partecipanti e beneficiarie degli sviluppi e del benessere generato dalla F1.
Con la medesima ottica si può interpretare il processo che negli ultimi anni ha generato la diffusione delle corse in tutto il mondo, in Paesi come la Malesia e il Bahrein, come uno sviluppo del mondo dell'auto al di fuori dei suoi confini originari: l'oggetto sociale della FIA.
Oltre a questo cap, materia del contendere è stata la possibilità di controllo del rispetto dei conti da parte di un organismo terzo.

Il budget cap è una forma di regolamentazione che trova applicazione negli sport americani e che il sottoscritto riterrebbe la soluzione opportuna anche per il calcio italiano ed europeo: con questo sistema le leghe professioniste americane contemperano la proprietà privata dei soldi e la possibilità di spenderli con le esigenze di una competizione aperta alla vittoria di tutti i partecipanti. Pensiamo a quante diverse squadre vincono negli States e a come siano sempre le stesse a spartirsi il bottino in Italia ed in Europa, dove addirittura si aggiungono fenomeni di dumping fiscale tra Paesi.
In Italia in particolare l'applicazione del budget cap si scontra contro due caratteristiche ataviche del nostro Paese: la prima – delle classi dirigenti – è l'allergia alle regole e l'inettitudine di chi dovrebbe farle rispettare, la seconda – popolare – di amare il più forte adeguandovisi ed osannandolo. Figuriamoci poi se un organismo internazionale vuole ficcare il naso nei conti di casa nostra.

Il controcanto dei media, in una disputa del genere tra la Ferrari patrimonio nazionale e un organismo sovra-nazionale e semi-sconosciuto governato da una figura legata nel gossip a festini sado-maso, è una celebrazione a senso unico, compiuta dalla ciliegina del fiero dileggio delle nuove piccole scuderie entranti. Dimenticando tra l'altro che in pista la Ferrari quest'anno non vede il podio ed è scalzata dalla Red Bull che ti mette le ali e dalla BrawnGP che ti mette il diffusore posteriore. L'operazione giornalistica, più facile che sparare sull'euro-burocrazia di Bruxelles, è però utile solo a riempire le pagine dei quotidiani: l'unica motivazione che giustifichi il comportamento di Mosley non può essere altro che una forma di perversione non sopita dalle frustate delle nazi-squillo. Guai a ragionare di regolamentazione del mercato.

“È come imporre a Juve e Manchester quanto spendere” il commento a chiosa della vittoria della Ferrari per capitolazione dell'altro contendente. Ecco, appunto. Guai a mettere in discussione i pilastri fondamentali della nostra economia: i ricchi spendano e spandano così possono redistribuire ai lavoratori fino a quando non sono in difficoltà e allora, giustamente, dovrà essere la comunità ad accollarsi il mutuo sostegno dei giganti in crisi, con un incentivo alla rottamazione o con l'abolizione di potenziali concorrenti. Occorre che il mercato dell'auto resti chiuso e sempre più concentrato in poche mani, come d'altronde il capitalismo finanziario impone, e che anche gli ultimi regolatori siano “catturati” da parte dei costruttori e resi al proprio servizio.

Il motivo principale del torto di Mosley risiede in una ragione economica, che distingue il mercato dell'auto rispetto agli altri sport, e che contribuisce a valutare come sbagliata anche la menzionata frase finale di Montezemolo. Mentre le spese del calcio (del basket, del football ecc) sono a titolo di consumo ovvero maturano la propria utilità nel campionato in corso, i soldi nella Formula 1 sono investiti nello sviluppo tecnologico dei motori, che mantengono il loro valore anche nel corso degli anni. In questo senso, la Ferrari ha ragione affermando di non voler correre in una Formula 3 ma di volersi misurare sul confine del progresso e dello sviluppo. La sconfitta in pista delle vetture che hanno il kers, sostenuto dal regolamento in quanto foriero di sviluppi per le vetture stradali, è stato il paradigma di un errore di regolazione tra la libertà del mercato ed un suo finalismo preordinato.

L'errore di Mosley è stato quello manageriale di tirare troppo la corda, fino a strappare i legami con il potente Circus che riporta alle tasche di Ecclestone e con i voleri politici che in un ambiente compassato e d'elite così poco sembrano adatti ad intenti riformisticamente rivoluzionari.

Della F1 piace l'assoluta libertà e si potrebbe riflettere che un campionato in cui uno sviluppo sregolato e senza freni consentisse il record mondiale di velocità ad ogni GP potrebbe per l'audience essere preferibile ad una noiosa pisolata senza perdersi un sorpasso. Salvo rendersi conto che metterebbe a rischio la vita dei piloti e dei meccanici.
Finchè questa folle passione verrà contemperata da una visione d'insieme dell'automobilismo mondiale, la Formula 1 a ragione potrà ambire a sport leader. Altrimenti rimarrà solo la perversione del business.

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