Ricambio generazionale: la predica e la pratica
Il mantra del ricambio generazionale pervade ormai ogni discorso intorno al rilancio del Partito Democratico. Nel nome del rinnovamento della classe dirigente si lanciano anatemi e si guidano truppe di vento contro una generazione di politici logora, conflittuale, inadeguata. Il PD non potrà mai affrancarsi dalle sue ingombranti identità passate – non potrà mai essere partito nuovo – fino a quando non presenterà ai suoi vertici persone libere dal pregiudizio della provenienza, capaci di incarnare la novità in modo univoco e credibile. Fino a quando non farà largo ai giovani. Si dice.
Parlando d'altro, uno che la sa lunga, chiamiamolo Md'A, ha dichiarato qualche settimana fa: “la vocazione maggioritaria non si predica, si pratica”. Affilato ed evidente. È inutile strombazzare strategie altisonanti se poi alla prova dei fatti non si è in grado di sostenere lo scontro: prima si raccolgono le forze e poi si sfida il potente avversario. Se trasliamo il ragionamento al ricambio della classe dirigente del PD, la limpidezza del ragionamento non si perde: il comando di un partito non si richiede, si conquista.
Persino in una sbocconcellata democrazia interna come quella del PD, vale la regola che viene eletto segretario chi si candida e ottiene più voti. Alle ultime primarie nazionali l'unica novità era il giovane Adinolfi che ha calamitato i voti di affezionati lettori e parenti (5.000); dopo le dimissioni di Veltroni, i candidati – veri e presunti – alla segreteria erano Franceschini, Parisi e Bersani, nuovi pretendenti alla leadership si sono limitati a vociare l'assenza di primarie. Ma nelle pieghe della realtà locale un ricambio generazionale sta lentamente avvenendo, simboleggiato dall'elezione di Renzi a candidato sindaco a Firenze: bisogna crearsi un elettorato, una credibilità personale e un programma convincente e presentarsi. Il cambiamento generazionale va alla prova dei numeri, non dei piagnistei.
Tanto più che gli ex-segretari della FGCI divenuti leader nazionali e additati a luminosi esempi – D'Alema o Veltroni – sono stati protagonisti di lunghe e asperrime battaglie congressuali e politiche prima di arrivare a posizioni di preminenza nel PDS, sostanziando così le lungimiranti politiche di ricambio di Berlinguer e Natta. Come a dire, il partito ha certamente investito sui propri giovani – un elemento ora stentato nel PD -, ma questi hanno poi dovuto conquistare la propria leadership crescendo nelle competenze, dimostrando risultati tangibili e soprattutto rappresentando nuove istanze e proponendo nuove visioni.
Ecco il punto vero, la carne viva del problema. Quando ci si domanda perché la classe politica attuale si dimostri tanto coriacea e resistente, bisognerebbe anche guardare all'offerta proposta dalle eventuali leadership nascenti. Che vuoti di rappresentanza colmano? Di quali novità strategiche si fanno portatrici? Quali nuove visioni della realtà italiana e internazionale sono stati in grado di sviluppare finora? Che personalità si sono fatte avanti per guidare il ricambio generazionale?
Domande aperte lasciate alle riflessioni degli interessati e alle valutazioni degli elettori senza risposte univoche. È certo però che la realtà del Duemila, i suoi fondamentali sconvolgimenti internazionali, i profondi mutamenti e la gravità del tessuto sociale italiana, la fluidità delle categorie e appartenenze politiche passate, le sfide strategiche del sistema partitico italiano ed europeo si prestano a infinite interpretazioni e nuove visioni e istanze. Ma bisogna farci seriamente i conti.
Bisogna fare prima di tutto i conti con l'irrespirabilità della politica italiana, col clientelismo e la corruzione, i tesseramenti fasulli e il vassallaggio, l'abuso e degrado del potere. I giovani sono capaci di rompere con le pratiche malsane tradizionali, soprattutto nelle aree più critiche del Meridione, dove è necessaria una classe politica doppiamente corazzata, capace di resistere alle sirene del malaffare ed estirpare i numerosi cancri di criminalità che ne affliggono la vita quotidiana e la libertà personale? Sono in grado di impegnarsi a rendere più trasparenti possibile le procedure di partito attraverso la propria personale pratica? A promuovere il merito - qualunque cosa esso sia – a partire dalla propria organizzazione? Sono capaci di vincere?
La definizione dell'identità del Partito Democratico cammina sulle gambe delle nuove proposte. Benissimo. Allora bisogna fare i conti con la ristrutturazione globale dell'economia, con la fine dell'egemonia occidentale, con la nuova specializzazione della produzione e distribuzione geografica del lavoro – non solo con la green economy. Bisogna fare i conti con i confini nazionali: l'Unione Europea è un'entità o un'identità? Un fardello tecnicistico o un'autorità politica da direzionare? Le trasformazioni del lavoro e dei rapporti di lavoro sono faccende riducibili alla contrattualistica o ai sussidi di disoccupazione o anche a macrotemi come l'integrazione degli immigrati, il sistema educativo, la rappresentanza degli interessi? E poi ancora, è ammissibile barricarsi dietro un sistema pensionistico pronto a soffocare le rendite del lavoro per le prossime generazioni? C'è da lottare a fianco o contro gli attuali sindacati? Infine, ancora, bisogna fare i conti con la composizione della fr
attura laico-religiosa che minaccia di rigettarci in baratri seicenteschi, a maggior ragione nella prospettiva della crescente presenza musulmana in Italia. Cosa vuol dire laicismo e come si applica?
Chi sa dare risposte complete, innovative e coerenti a queste domande – e a tutte quelle che ho omesso per brevità – è bravo. E potrebbe candidarsi a essere il nuovo leader, nella predica e nella pratica.
Parlando d'altro, uno che la sa lunga, chiamiamolo Md'A, ha dichiarato qualche settimana fa: “la vocazione maggioritaria non si predica, si pratica”. Affilato ed evidente. È inutile strombazzare strategie altisonanti se poi alla prova dei fatti non si è in grado di sostenere lo scontro: prima si raccolgono le forze e poi si sfida il potente avversario. Se trasliamo il ragionamento al ricambio della classe dirigente del PD, la limpidezza del ragionamento non si perde: il comando di un partito non si richiede, si conquista.
Persino in una sbocconcellata democrazia interna come quella del PD, vale la regola che viene eletto segretario chi si candida e ottiene più voti. Alle ultime primarie nazionali l'unica novità era il giovane Adinolfi che ha calamitato i voti di affezionati lettori e parenti (5.000); dopo le dimissioni di Veltroni, i candidati – veri e presunti – alla segreteria erano Franceschini, Parisi e Bersani, nuovi pretendenti alla leadership si sono limitati a vociare l'assenza di primarie. Ma nelle pieghe della realtà locale un ricambio generazionale sta lentamente avvenendo, simboleggiato dall'elezione di Renzi a candidato sindaco a Firenze: bisogna crearsi un elettorato, una credibilità personale e un programma convincente e presentarsi. Il cambiamento generazionale va alla prova dei numeri, non dei piagnistei.
Tanto più che gli ex-segretari della FGCI divenuti leader nazionali e additati a luminosi esempi – D'Alema o Veltroni – sono stati protagonisti di lunghe e asperrime battaglie congressuali e politiche prima di arrivare a posizioni di preminenza nel PDS, sostanziando così le lungimiranti politiche di ricambio di Berlinguer e Natta. Come a dire, il partito ha certamente investito sui propri giovani – un elemento ora stentato nel PD -, ma questi hanno poi dovuto conquistare la propria leadership crescendo nelle competenze, dimostrando risultati tangibili e soprattutto rappresentando nuove istanze e proponendo nuove visioni.
Ecco il punto vero, la carne viva del problema. Quando ci si domanda perché la classe politica attuale si dimostri tanto coriacea e resistente, bisognerebbe anche guardare all'offerta proposta dalle eventuali leadership nascenti. Che vuoti di rappresentanza colmano? Di quali novità strategiche si fanno portatrici? Quali nuove visioni della realtà italiana e internazionale sono stati in grado di sviluppare finora? Che personalità si sono fatte avanti per guidare il ricambio generazionale?
Domande aperte lasciate alle riflessioni degli interessati e alle valutazioni degli elettori senza risposte univoche. È certo però che la realtà del Duemila, i suoi fondamentali sconvolgimenti internazionali, i profondi mutamenti e la gravità del tessuto sociale italiana, la fluidità delle categorie e appartenenze politiche passate, le sfide strategiche del sistema partitico italiano ed europeo si prestano a infinite interpretazioni e nuove visioni e istanze. Ma bisogna farci seriamente i conti.
Bisogna fare prima di tutto i conti con l'irrespirabilità della politica italiana, col clientelismo e la corruzione, i tesseramenti fasulli e il vassallaggio, l'abuso e degrado del potere. I giovani sono capaci di rompere con le pratiche malsane tradizionali, soprattutto nelle aree più critiche del Meridione, dove è necessaria una classe politica doppiamente corazzata, capace di resistere alle sirene del malaffare ed estirpare i numerosi cancri di criminalità che ne affliggono la vita quotidiana e la libertà personale? Sono in grado di impegnarsi a rendere più trasparenti possibile le procedure di partito attraverso la propria personale pratica? A promuovere il merito - qualunque cosa esso sia – a partire dalla propria organizzazione? Sono capaci di vincere?
La definizione dell'identità del Partito Democratico cammina sulle gambe delle nuove proposte. Benissimo. Allora bisogna fare i conti con la ristrutturazione globale dell'economia, con la fine dell'egemonia occidentale, con la nuova specializzazione della produzione e distribuzione geografica del lavoro – non solo con la green economy. Bisogna fare i conti con i confini nazionali: l'Unione Europea è un'entità o un'identità? Un fardello tecnicistico o un'autorità politica da direzionare? Le trasformazioni del lavoro e dei rapporti di lavoro sono faccende riducibili alla contrattualistica o ai sussidi di disoccupazione o anche a macrotemi come l'integrazione degli immigrati, il sistema educativo, la rappresentanza degli interessi? E poi ancora, è ammissibile barricarsi dietro un sistema pensionistico pronto a soffocare le rendite del lavoro per le prossime generazioni? C'è da lottare a fianco o contro gli attuali sindacati? Infine, ancora, bisogna fare i conti con la composizione della fr
attura laico-religiosa che minaccia di rigettarci in baratri seicenteschi, a maggior ragione nella prospettiva della crescente presenza musulmana in Italia. Cosa vuol dire laicismo e come si applica?
Chi sa dare risposte complete, innovative e coerenti a queste domande – e a tutte quelle che ho omesso per brevità – è bravo. E potrebbe candidarsi a essere il nuovo leader, nella predica e nella pratica.