Lo scandaloso Ermaphroditus del Panormita
Probabilmente sono in pochi a sapere che proprio sotto le due torri usciva (ancora nella forma manoscritta) nel 1425 uno scandaloso libretto destinato a diventare un best-seller del proibito; era un volumetto di epigrammi latini che molti intenditori gusteranno per secoli in privato, nell’oscurità del proprio studio, mentre nelle pubbliche piazze applaudiranno, con ben nota ipocrisia, ai roghi alimentati dalle carte oscene di questo essere sfacciato e libertino, l’Ermaphroditus. Lungi dall’avere un’identità sessuale efebica, questo strano essere libidinoso è dotato di una golosa vagina e di un membro rigoglioso, così da poter tornar utile a ogni bisogna. Il suo effetto doveva essere davvero prodigioso, vero viagra avant le lettres, se anche a Ippolito, «quel frigido [leggasi: modello di costumatezza], se legge questi versi gli si rizza glorioso».
Il suo autore, siciliano, era stato studente fuorisede nella gaudente città di Siena, dove si andavano rinverdendo i fasti dell’antica poesia latina elegiaco-epigrammatica, e a qualcuno forse spiacerà che il suo nome, Antonio Beccadelli, detto Panormita dalla sua città di provenienza, corrisponda proprio a quello del futuro grande umanista fondatore, a Napoli, di una delle più note accademie di classicisti della nostra penisola (il Porticus Antonianus, poi Accademia Pontaniana). Le due cose non son certo in contrapposizione.
Tutti sono stati giovani, hanno sfottuto professori, fatto bagordi e intessuto scherzi goliardici su tema sessuale; pochi han saputo eternare questo momento della vita in modo insieme così raffinato e salace come ha fatto il Panormita. Lui si schernisce, ovviamente, assicurando, per esempio, all’amico Sanzio Ballo che le sue son cosette da nulla, «uscite fuori mentre entravano dentro / il cibo e il vino» e che «versi come questi / io li ho spesso composti in piazza, in mezzo a un casino assordante» (I 27). Del resto, andare a cercare ispirazione in campagna a poco serve se la quiete del luogo ameno per eccellenza viene infranta dalle «scurrogge fragorose» di un rusticus cacans: «escono da quel culo tenorile / e la terra d’intorno ne trema. / Io mi riscuoto e la penna mi cade di mano, / la Musa scappa via / e l’uccelletto la segue atterrito / dal crepitio dei peti». Meglio il turbinio della città.
Al dedicatario ufficiale della raccolta, il futuro signore della città di Firenze, udite udite, ser Cosimo de’ Medici, l’autore concedeva di chiamare il libretto come desiderava, anche “Bucodelculo”, purché non fosse una parola casta (I 3). Fatte allontanare madri attempate e verginelle educande, ché l’autore si sta spogliando e già «l’uccello prorompe / dalle mutande» (I 4), emergono i dedicatari ideali della raccolta: i vari Petaso, pederasta sciancato; Mumuriano, individuo vizioso in modo esagerato (I 12); Corvino, che è tanto geloso del suo vino quanto generoso della fica di sua moglie (I 6); Amilo, corrispondente del poeta, che, una volta letto il biglietto e abusato del giovane ambasciatore, gli potrà dire se «è più dolce / il biglietto o il postino» (I 34); il professore Mattia Lupi, incompetente, puzzone e comprovato pederasta. Ma anche i colleghi umanisti son chiamati in causa, nella veste di consulenti: all’amico Giovani Aurispa, grande cercatore di manoscritti, chiede un consiglio per salvarsi dalla ninfomane Orsa: «C’è un modo / per evitare che la fica affamata / di Orsa si divori i miei coglioni? / Un modo per evitare che questa sanguisuga / si inghiotta la mia coscia tutta intera / ed il ventre, per giunta? Aurispa mio, mettiamoci un toppino, uno qualunque, / sennò naufragherò nella sua fica» (II 7); al nobile, bello ed elegante Leon Battista Alberti, forse conosciuto proprio a Bologna nei primi anni venti, l’autore confida che «Se avessi tanti cazzi quanti rami in un albero / Orsa li incorperebbe tutti quanti / in un sol giorno» (I 19).
Le vere destinatarie del libretto sono però proprio loro, la bionda Elena, la dolce Matilde e Giannetta con la sua cagnolina, Clodia «col seno nudo dipinto», Galla «che con gran naturalezza maneggia cazzo e fica» e poi Anna, Pito… il fior fiore delle puttane di Firenze, insomma. Il loro bordello – Antonio ci saprebbe andare ad occhi chiusi – è lì in quella piazza che oggi si chiama “della Repubblica”, a due passi dal duomo. Ci vada pure l’Ermaphroditus, e faccia il nome del suo autore. Chissà che lì non incontri anche Cosimo. Due piccioni con una fava.
Il suo autore, siciliano, era stato studente fuorisede nella gaudente città di Siena, dove si andavano rinverdendo i fasti dell’antica poesia latina elegiaco-epigrammatica, e a qualcuno forse spiacerà che il suo nome, Antonio Beccadelli, detto Panormita dalla sua città di provenienza, corrisponda proprio a quello del futuro grande umanista fondatore, a Napoli, di una delle più note accademie di classicisti della nostra penisola (il Porticus Antonianus, poi Accademia Pontaniana). Le due cose non son certo in contrapposizione.
Tutti sono stati giovani, hanno sfottuto professori, fatto bagordi e intessuto scherzi goliardici su tema sessuale; pochi han saputo eternare questo momento della vita in modo insieme così raffinato e salace come ha fatto il Panormita. Lui si schernisce, ovviamente, assicurando, per esempio, all’amico Sanzio Ballo che le sue son cosette da nulla, «uscite fuori mentre entravano dentro / il cibo e il vino» e che «versi come questi / io li ho spesso composti in piazza, in mezzo a un casino assordante» (I 27). Del resto, andare a cercare ispirazione in campagna a poco serve se la quiete del luogo ameno per eccellenza viene infranta dalle «scurrogge fragorose» di un rusticus cacans: «escono da quel culo tenorile / e la terra d’intorno ne trema. / Io mi riscuoto e la penna mi cade di mano, / la Musa scappa via / e l’uccelletto la segue atterrito / dal crepitio dei peti». Meglio il turbinio della città.
Al dedicatario ufficiale della raccolta, il futuro signore della città di Firenze, udite udite, ser Cosimo de’ Medici, l’autore concedeva di chiamare il libretto come desiderava, anche “Bucodelculo”, purché non fosse una parola casta (I 3). Fatte allontanare madri attempate e verginelle educande, ché l’autore si sta spogliando e già «l’uccello prorompe / dalle mutande» (I 4), emergono i dedicatari ideali della raccolta: i vari Petaso, pederasta sciancato; Mumuriano, individuo vizioso in modo esagerato (I 12); Corvino, che è tanto geloso del suo vino quanto generoso della fica di sua moglie (I 6); Amilo, corrispondente del poeta, che, una volta letto il biglietto e abusato del giovane ambasciatore, gli potrà dire se «è più dolce / il biglietto o il postino» (I 34); il professore Mattia Lupi, incompetente, puzzone e comprovato pederasta. Ma anche i colleghi umanisti son chiamati in causa, nella veste di consulenti: all’amico Giovani Aurispa, grande cercatore di manoscritti, chiede un consiglio per salvarsi dalla ninfomane Orsa: «C’è un modo / per evitare che la fica affamata / di Orsa si divori i miei coglioni? / Un modo per evitare che questa sanguisuga / si inghiotta la mia coscia tutta intera / ed il ventre, per giunta? Aurispa mio, mettiamoci un toppino, uno qualunque, / sennò naufragherò nella sua fica» (II 7); al nobile, bello ed elegante Leon Battista Alberti, forse conosciuto proprio a Bologna nei primi anni venti, l’autore confida che «Se avessi tanti cazzi quanti rami in un albero / Orsa li incorperebbe tutti quanti / in un sol giorno» (I 19).
Le vere destinatarie del libretto sono però proprio loro, la bionda Elena, la dolce Matilde e Giannetta con la sua cagnolina, Clodia «col seno nudo dipinto», Galla «che con gran naturalezza maneggia cazzo e fica» e poi Anna, Pito… il fior fiore delle puttane di Firenze, insomma. Il loro bordello – Antonio ci saprebbe andare ad occhi chiusi – è lì in quella piazza che oggi si chiama “della Repubblica”, a due passi dal duomo. Ci vada pure l’Ermaphroditus, e faccia il nome del suo autore. Chissà che lì non incontri anche Cosimo. Due piccioni con una fava.