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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 57 - 16 Marzo 2009 | 0 commenti

L'Aretino

Il 500 è il secolo della rinascita, delle Belle Arti, del rinnovamento scientifico e culturale, è il secolo delle eleganti e raffinate corti europee, ma è per l'Italia anche il secolo delle invasioni straniere e delle lotte intestine. Così mentre il bel paese viene percorso in lungo e in largo dagli eserciti delle grandi potenze europee, sino a quel fatidico 1527 anno del sacco di Roma, mentre le truppe straniere saccheggiano e devastano, Michelangelo affresca la Cappella Sistina, Ludovico Ariosto scrive L'Orlando Furioso, Leonardo dipinge L'Ultima Cena e il Bembo definisce il canone della Volgar Lingua.

Le contraddizioni, ammesso che contraddizioni si possano chiamare, di questo secolo magico destinato a lasciare traccia indelebile nella storia della letteratura e delle arti, così come nella storia degli equilibri europei, si fanno più profonde se analizzate da un punto di vista prettamente letterario. A fianco di una letteratura per così dire ufficiale, esiste sempre una letteratura parallela che spesso nasce dal basso e alla prima si contrappone, così, ad esempio accanto al Cortegiano di Baldassar Castiglione, nasce la Cortigiana di Pietro Aretino, e se nella prima opera si definisce il canone del nobiluomo di corte, nella seconda, che di essa è parodia, si dispensano consigli per trasformare giovani donne in perfette amanti di corte.

Nato nel 1492 da famiglia di umili origini, l'Aretino stesso amava definirsi come il figlio di una cortigiana con l'animo di un re; vicino al banchiere Agostino Chigi e poi al cardinale Giulio de' Medici, Pietro Aretino non tarda a farsi conoscere come poeta licenzioso e autore di graffianti pasquinate (brevi poemi di satira politica che venivano scritti in forma anonima e affissi sulla statua del Pasquino in piazza Navona). La licenziosità e la spregiudicatezza dei suoi versi lo tennero a lungo lontano da Roma e nonostante la sua condizione variasse col variare degli esponenti alla corte pontificia, la costante insofferenza nei confronti del classicismo letterario, aristocratico e pontificio, fece di lui un personaggio al margine della comunità intellettuale.

Nel 1527 Pietro Aretino pubblicò i Sonetti lussuriosi, considerati dalla critica dell'epoca componimenti di carattere pornografico, la loro oscenità indignò profondamente la corte romana, ma ai Sonetti Lussuriosi si ispirò dapprima Giulio Romano per alcuni dipinti erotici e successivamente Marcantonio Rimondi per le incisioni che accompagnarono l'edizione del 1527. La linceziosità dell'Aretino e la sua pungente vena satirica non potevano che scandalizzare ed insieme indignare la corte pontificia, se le irriverenti pasquinate costarono al poeta un accoltellamento da parte di un sicario del vescovo Gianmatteo Giberti, che evidentemente aveva poco gradito l'attacco politico rivoltogli.

La reazione alla pubblicazione dei Sonetti lo portò alla decisione di abbandonare Roma definitivamente in nome della più libera Venezia, allora considerata il centro anticortigiano per eccellenza. Al trentennio veneziano è legata la parte più florida della sua produzione letteraria, infatti, oltre alla composizione di numerosi poemi l'Aretino si cimentò nella stesura di opere teatrali: Il Marescalco (1533), la Talanta (1542), Lo Ipocrito (1542), Il Filosofo (1546), e la tragedia La Orazia (1546), per dedicarsi infine alla prosa trattatistica, aneddotica e agiografica.

Non vennero mai meno il sarcasmo e la spregiudicatezza che furono la peculiarità della sua intera opera, non esisteva persona, di qualsivoglia rango, che potesse sfuggire alla sua penna graffiante, nobildonne, cardinali, sovrani, di fronte a Pietro Aretino non erano che uomini e donne messi a nudo delle proprie perversioni, dei propri vizi, di quel peccato tutto umano che è la lussuria. Leggenda narra che sulla sua tomba fossero incisi i versi: Qui giace l'Aretin, poeta tosco/ di tutti parlò mal/ fuor che di Cristo/ scusandosi col dir: non lo conosco. Non ci sono prove certe che questo fosse l'epitaffio di Pietro Aretino, tuttavia mi piace credere nella loro autenticità poiché rispecchiano appieno l'animo di un poeta che visse la sua vita senza troppo curarsi di quella che era convenzionalmente definita “la comune decenza”, che non ebbe nessuna remora nell'offendere i potenti signori e le loro cortigiane predilette, che per ferire i suoi avversari usò l'unica arma che ebbe mai a disposizione: le parole.

Questo è un libro d'altro che Sonetti,

di Capitoli, d'Egloghe o Canzone;

qui il Sannazaro o il Bembo non compone

nè liquidi cristalli, nè fioretti.

Qui il Bernia non ha madrigaletti

ma vi son cazzi senza discretione;

ecci la potta, e 'l cul che gli ripone,

come fanno le scatole a' confetti.

E qui son gente fottute sfottute,

e di cazzi e di potte notomie,

e ne i culi molte anime perdute.

E ognun si fotte in le più leggiadre vie,

ch'a Ponte Sisto non sarian credute,

infra le puttanesche gerarchie. Et in fin le son pazzie

a farsi schifo di sì bon bocconi,

e chi non fotte ognun, Dio gli perdoni.

(Pietro Aretino, Proemio dei Sonetti Lussuriosi)

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