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Scritto da nel Il Libro del Viaggiatore, Numero 54 - 1 Febbraio 2009 | 0 commenti

Un calcio per la memoria





Quando il calcio era ancora provinciale, nel senso che le squadre erano composte per la maggior parte da gente del posto, chi veniva da fuori doveva fare necessariamente la differenza.

Se poi si trattava di uno straniero, doveva essere un fenomeno.

È questo il caso di Arpad Weisz, giocatore ungherese di medio alto livello che riuscì anche a vestire la maglia della propria nazionale ma soprattutto autentico fenomeno delle panchine.

Arrivò in Italia verso la fine degli anni ’20 in qualità di allenatore e dopo aver allenato l’Alessandria, passò sulla prestigiosa panchina dell’Ambrosiana, un tempo nota come Internazionale. Ma la moda del tempo “consigliò” di cambiare nome a questa squadra.

Manco a dirlo, l’Ambrosiana vinse lo scudetto.

In seguito si trasferì a Bologna, esattamente nel quartiere Saragozza. Qui rimane per degli anni, la famiglia si ambienta e i figli crescono e studiano in questa città.

I risultati del Bologna migliorarono: pur senza essere un personaggio particolarmente eccentrico, Bologna lo ama.
E l’amore diventa travolgente, quando nel 35/36 e 36/37 il Bologna vinse due volte consecutivamente lo scudetto, impresa riuscita fino ad allora solo alla Juventus.
E non è finita. Portò il Bologna in vetta all’Europa, dando lezioni di calcio ai maestri inglesi: nel 1937 il Bologna battè a Parigi nella finale del “Trofeo dell’Esposizione”, una sorta di Champions League dell’epoca, i campioni d’Inghilterra del Chelsea con il punteggio schiacciante di 4-1.

Un unico problema: erano tante le cose non andavano di “moda” all’epoca in Italia, non solo i nomi delle squadre di calcio.

In seguito alle leggi razziali a Weisz, ebreo, fu “consigliato” di dare le dimissioni da allenatore del Bologna. Scappò inizialmente a Parigi, dove rimase qualche mese. Continuò il suo pellegrinaggio e trovò riparo a Dordrecht, in Olanda.
Iniziò ad allenare la squadra del posto, una squadra piuttosto mediocre, con risultati soprendenti. Come dire che Capello debba allenare il Castel Guelfo e questo inizi a vincere improvvisamente partite su partire.

Tempo due anni, e dovette abbandonare anche l’Olanda: destinazione, Auschwitz.

 

 

“Visto da lontano, Arpad Weisz non è alto e non è basso. Non è bello e non è brutto. È un uomo normale, nelle forme fisiche quanto nel volto. Eppure basta osservarlo qualche istante per non staccargli lo sguardo di dosso. Ha qualcosa di misterioso e insieme di magnetico, una faccia simpatica e intelligente, che si scopre lentamente. Il sorriso è vago e indefinito, ma possiede anch’esso una strana magia… È il momento più bello della sua vita e dista appena nove mesi dalla fuga dall’Italia, meno di quattro anni dall’inferno di Auschwitz, meno di sei dalla fine di tutto.” [1]

Così inizia il libro "Dallo scudetto ad Auschwitz" di Matteo Marani, direttore del Guerin Sportivo, a cui si deve il merito di aver ricostruito questa storia.

 

 




1.       [1] Matteo Marani, “Dallo scudetto ad Auschwitz”, ed. Alberti 2008.

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