Faber e Sardigna – Montesino
Fu nel periodo di “Storia di un impiegato” che Fabrizio De André comprò L'Agnata, in Gallura.
L'idea di trasferirsi sull'isola fu dettata dal desiderio di recuperare il proprio rapporto con la campagna, dove visse a lungo da piccolo e dove volle tornare, con la tenuta in Sardegna. “Mi sento più contadino che musicista. Questo è il mio porto, il mio punto d'arrivo. Qui voglio vivere, diventare vecchio…”, dichiarò una volta.
Fabrizio de André era certamente uno fra i tanti ammiratori delle bellezze naturali della Sardegna: “la vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi”. Tuttavia, egli scelse la Sardegna non come luogo di vacanza, come molti fanno oggi, ma di vita, perché se ne sentiva figlio.
In un'intervista tv rilasciata a Vincenzo Mollica nel 1984 affermò di aver scelto la Sardegna come luogo di residenza perché, nonostante le diversità linguistiche e culturali tra le popolazioni dell'isola, sentiva che i sardi condividevano alcuni valori fondamentali in cui anch'egli credeva fermamente. Tra questi vi sono certamente il senso dell'ospitalità, della solidarietà e dell'aiuto reciproco, ma anche dell'onore e del rispetto, e la fierezza delle proprie tradizioni.
Amava la sua natura atavica, gli orizzonti illimitati, i profumi e i colori intensi, ma anche quella povertà millenaria che a volte induce forme di criminalità tristemente originali. Come una “janas” dal duplice volto, mezza strega e mezza fata, l'isola è infatti la terra matrigna del “banditismo sardo”. E proprio dell'Anonima Sequestri rimase vittima, insieme a sua moglie, Dori Ghezzi.
Nell'agosto del 1979, entrambi furono rapiti e rimasero prigionieri dei banditi per 117 giorni nella zona della Barbagia. Questa esperienza lo segnò in maniera profonda. Ma il cantautore genovese seppe trarne anche una grande lezione, artistica e di vita.
Innanzitutto, l'evento lo liberò da altre paure riconciliandolo con il pubblico e spingendolo ad osare di più musicalmente.
L'anno successivo al rapimento uscì l'album “L'indiano”. Con esso, Fabrizio de André canta il suo amore per la Sardegna e per il popolo sardo, che vive in quest'album il parallello con il popolo pellerossa, esaltato per l'orgoglio delle sue origini e della sua cultura. Trasparente, infatti, la similitudine fra il popolo indiano e quello sardo, entrambi, secondo il cantautore, rinchiusi in 'riserve culturali', entrambi vittime di dominazioni sociali.
L'album si apre con le urla dei cacciatori durante la caccia al cinghiale di “Quello che non ho”, ironica satira sociale sulla civiltà attuale, che segna ancor di più la distanza con i popoli qui cantati.
Hotel Supramonte è la quinta canzone del disco. Dal punto di vista musicale il pezzo è il più intimo dell'album: alla voce si aggiungono solo degli strumenti acustici (un basso, un violino, una chitarra) e un leggero accompagnamento d'archi. Esso è anche il più drammatico: attraverso una lirica intensa ed una musica dolce, l'autore mostra di non portare rancore per ciò che gli è accaduto e narrando in modo poetico la sua triste vicenda, dedica molta attenzione anche alla sua amata che si trova a soffrire con lui e per lui: “Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano”.
“Conservo il ricordo dei miei carcerieri – disse nell'intervista del 1984 – e oggi ne sono certo: era gente che non aveva alternative. Chi ha il potere deve stare attento: i cattivi esempi portano il popolo alla disperazione”.
Questa affermazione è indice dell'incredibile apertura di una persona capace di comprendere e di perdonare, laddove ciò è possibile, e di andare oltre gli schemi morali e sociali.
Per questo la canzone di De Andrè, travalicando le generazioni, è la canzone di tutti noi. Perché è in grado di parlare a tutti ed arriva dritta alla mente e al cuore. Per questo i sardi amano De André dal profondo e con quel rispetto che concedono a coloro che non si fermano né alle apparenze né alle coste cristalline baciate da uno dei mari più belli del mondo.