Obama vs. Dexter: sfida tra super eroi
Ormai sappiamo tutti chi sia Barack Obama. Forse non tutti, invece, conoscono Dexter Morgan. L'uno è il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti; l'altro è un personaggio di fantasia creato dalla penna di Jeff Lindsay e portato sullo schermo da James Manos Jr. per il canale Showtime. Nella stagione in cui anche Hollywood sbeffeggia il vecchio mito dell'eroe da manuale, con “Hancock” e Will Smith, non smette tuttavia di rivivere questa figura che tanta parte ha avuto nel costruire l'immaginario collettivo, da Batman a Tarantino; e sia Obama che Dexter ne sono un esempio. Partiamo da Dexter.
Ematologo della Scientifica, residente a Miami, bianco, bellissimo, adorabile con le donne e i bambini, all'inizio della sua narrazione il protagonista si trova impegnato in una casta relazione con la dolce e instabile Rita, e occupato nel suo hobby preferito, assassinare gli assassini: Dexter è un killer di serial killer. L'idea fu ottima, l'umorismo geniale, l'interpretazione di Michael C. Hall eccellente: la prima stagione di “Dexter” ci ha regalato un telefilm superlativo. E se la più ovvia critica ad un programma del genere, smaccatamente splatter e davvero poco adatto a un pubblico delle ore venti, consiste chiaramente in una supposta approvazione della legge del taglione (Dexter si fa giustizia da solo, intervenendo dove la polizia ha fallito), a tale critica si può facilmente replicare che Dexter non invita il privato cittadino a seguire il suo esempio, anzi: “the Dark Defender”, come l'opinione pubblica lo apostrofa nella seconda serie, non vuole copy-cats o imitatori e si preoccupa di mettere fuori gioco tutti coloro i quali cerchino di emularlo o di farne le veci. Dexter è il prescelto, in virtù della sua storia personale di sangue e di vendetta: da bambino, ha assistito all'omicidio della propria madre, ma nemmeno un trauma infantile è di per sé sufficiente a seguirne le orme. Dexter è stato preparato alla sua missione di giustiziere attraverso un adeguato apprendistato, a fianco del padre poliziotto; e solo a lui, legato indissolubilmente a un “codice etico” che gli impedisce di punire chi sia forse un sospettato, spetta il diritto di castigare chi invece sia inequivocabilmente un colpevole. Nessun invito a imbracciare il fucile fai da te: a confronto di Dexter, che non commette mai errori, tutti noi saremmo dei pivelli, incapaci di portare a termine qualsiasi delitto e soprattutto di non farci scoprire.
Tuttavia, c'è una critica a “Dexter” che potrebbe invece essere mossa a ragione. Il protagonista è squisitamente waspy; e bianchi, anglosassoni e protestanti sono anche la compagna e la sorella, il padre, il fratello, l'amante, l'amante della sorella e così via. L'antagonista, invece, è nero; così il bravo poliziotto Doakes, l'unico ad aver capito la natura perversa dell'agente Morgan, cercherà invano di sventare i piani del collega ematologo e ovviamente perderà la guerra: Dexter è invincibile. C'è spazio per una cubana, ma è amica dei neri e dunque destinata alla sconfitta; per un ispanico, funzionale alla storia come colui che sconta gli errori degli altri; per un giapponese, personaggio utile al pubblico ludibrio. La vera integrazione razziale non raggiunge lo schermo del nostro Dexter, che in alcune sequenze chiave riportate su YouTube, incastra e rovina Doakes tra i plausi dei fruitori della rete che lo incitano: “Dexter le suona al negro”. Questo, pochi mesi fa.
E veniamo a Obama, che a sua volta possiede tutte le caratteristiche del Super Eroe. Ha radici lontane, è pure lui bellissimo, ha i modi gradevoli della migliore tradizione democratica, soprattutto è riuscito dove nessun altro era riuscito. E poi, è un super eroe nel nome: mi perdonino i lettori una digressione. Se dovessi scrivere un articolo di satira fantapolitica non esiterei a insinuare che Osama Bin Laden e Barack Obama siano in realtà la stessa persona, ma mi fermo qui e forse più cinicamente ancora vorrei ipotizzare, piuttosto, che il successo di un candidato chiamato Obama (soprattutto nella sua accoppiata con il nome del vice-presidente, “O-ba-ma-Bi-den”) risponde a una delle regole più antiche e sfruttate della pubblicità, che consiste nella ripetizione: in strategia di marketing, questo concetto si traduce in una reazione maggiormente positiva, da parte del pubblico, a un suono che gli è già familiare rispetto a uno che gli è sconosciuto. Ebbene, nei meandri della propaganda politica c'è anche chi deve fare il gioco sporco, che poi ha successo, nella maggioranza dei casi; se la mia ipotesi fosse esatta, l'aver giocato su un cognome così scomodo sarebbe stato davvero un buon trucco. Rendiamo grazie allo staff di David Plouffe per avere sfidato sfacciatamente e a pari colpi bassi mediatici un'amministrazione repubblicana che ne aveva mostrati parecchi, di effetti speciali.
In un'elezione presidenziale ipotetica, vincerebbe Dexter o vincerebbe Obama? Quanto al primo, la terza stagione è il banco di prova di ogni serial e anche del nostro killer: per ora, Dexter mi è sembrato più tranquillo, meno dedito alle carneficine, più disinibito e dunque ormai intento, soprattutto, a mostrarsi in abiti succinti, omaggio alle antiche foglie di fico, assieme alla bella Rita. Entrambi sempre più biondi, più bianchi e più immemori, piacevolmente sperduti nel loro paradiso terrestre. Obama dovrà invece fare i conti con problemi socio-economici difficili da risolvere a chiacchiere, con una gang dei petrolieri che non mollerà facilmente l'osso, con simpatizzanti del Klan che non lo vedono di buon occhio e con delle guerre sciagurate, in giro per il mondo.
Per queste ragioni, se anche vincesse Obama nelle presidenziali immaginarie non mi illuderei sul cambiamento del globo intero. Ma poiché ha vinto nelle presidenziali reali, senza aspettarmi che si risolvano d'un colpo tutte le ingiustizie della razza umana, posso almeno sperare che tra le innumerevoli forme di discriminazione, almeno quella fra bianchi e neri possa dirsi in fase terminale. Cinquantatre anni fa quella donna eccezionale che deve essere stata Rosa Parks si rifiutò di cedere il posto a un uomo bianco in bus. A noi, oggi, sembra impossibile che un'etnia possa avere posti privilegiati su un autobus; forse tra solo due generazioni, i nostri nipoti rideranno dei telespettatori dei primi anni del millennio, che guardavano robacce maliziosamente stereotipate, dove i neri perdevano sempre contro i bianchi.