John Steinbeck: le parole di ieri per raccontare l'America di oggi
Quando morì nel dicembre del 1968 John Steinbeck si lasciò alle spalle libri di successo come Furore, Uomini e Topi, La valle dell'Eden, un premio Nobel conquistato qualche anno prima, la vastità delle terre americane ma soprattutto si lasciò alle spalle l'idea di essere un sopravissuto. La guerra, la crisi finanziaria, il decadimento e la rinascita del sogno americano. In sessantasei anni i suoi occhi videro le grandi tragedie del novecento, i massacri, le miserie, nelle sue vene scorse il dolore dei vinti, la rabbia dei poveri. Fu un irremovibile patriota, tanto da giustificare la guerra in Vietnam, tuttavia questo non gli impedì di condannare duramente l'arrivismo, denunciando la logica dei grandi gruppi finanziari e industriali, la parte peggiore della sua amata America. Sulla crisi degli anni '30 scriveva: “Ricordo molto bene il '29. C'è l'avevamo fatta (io no, ma la maggior parte della gente si). Ricordo le facce inebetite e felici della gente che costruiva fortune di carta sulle azioni. [...] Poi la gente smise di fare investimenti, e anche questo lo vidi con chiarezza, perché alla Depressione mi esercitavo da tempo. Non fui travolto dal crollo. Ricordo che venivano intervistati i Big Boys – i banchieri e gli industriali – quelli che sapevano. Alcuni acquistarono spazi per rassicurare i milionari in rovina: 'È solo un ribasso fisiologico. 'Non temete: comprate, continuate a comprare'. Intanto i Big Boys vendevano e il mercato implose.” Steinbeck scrisse queste parole nel giugno del 1960, oggi possiamo rileggerle in L'America e gli americani (Alet 2008), raccolta di saggi, tra cui alcuni inediti, ottimamente curati da Bruno Osimo, tuttavia la loro attualità è tale da chiedersi se la vita non sia realmente un eterno ritorno e la ciclicità del tempo non semplice allegoria ma inquietante realtà.
L'autore di Salinas, guadagnò duramente il rango di scrittore, prima fu bracciante, muratore, pescatore, aiuto chimico in uno zuccherificio e ricordandolo affermava: “Quelli che ritengono che il lavoro mentale sia più duro di quello fisico mi hanno sempre fatto ridere. Non ho mai conosciuto nessuno che potendo evitare, lasciasse la scrivania per la vanga”.
Nelle sue opere si ritrova tutta la forza del reale, quello con cui amava sporcarsi le mani tenendosi ben lontano da ogni sterile intellettualismo. Steinbeck era questo, la voce e gli occhi dei più poveri, la rabbia di chi ha fame, la forza che nasce dalla disperazione. La sua penna scorreva veloce sulla carta, scevra da falsi moralismi, capace di dare forma al dolore senza mai essere patetico, capace di raccontare il dramma umano con disarmante semplicità. Si poteva disapprovare il suo inflessibile patriottismo, magari giudicare discutibile la sua posizione sulla guerra del Vietnam o della Corea, ma certo non si poteva non amarlo, nel suo talento, nel suo coraggio nella sua infinità umiltà. Oggi più che mai, di fronte ad una nuova crisi finanziaria e a tutto ciò che ne consegue, si sente la mancanza di uno scrittore come John Steinbeck, qualcuno in grado di raccontarci l'America di oggi, qualcuno in grado di farci credere ancora che la scrittura sia un fatto etico.
grandissimo scrittore, ci ha regalato dei passaggi di letteratura emozionanti , intere epopee generazionali costruite su impasti di terra e sangue.
se vi capita consiglio anche “La perla”, libro breve ma intenso.