Due parole sui giochi di Pechino
La cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Pechino ha mostrato in tutta la sua maestosità la potenza del popolo cinese, almeno secondo quanto recita una certa saggezza popolare: i cinesi sono tanti. Vestiti di bianco, di rosso, di giallo, di verde, figuranti cinesi irrompono da ogni dove dello stadio, e ne arrivano degli altri. E degli altri ancora. Costruiscono una immensa torre umana, sono in settemila a creare la coreografia: non sarà venuto in mente, a Zhang Yimou, di sparare quelli che stanno in cima nello spazio, insieme ai fuochi di artificio, tanto per chiudere in bellezza una lunga polemica sui diritti umani? Ma no: dalla messa in scena cinese traspare invece l'incredibile tranquillità di un mondo ancora lontano e quasi vergine, terra di spazi immensi per un popolo chiuso ma disciplinato. Placido. Sorridente. Saggio. La figura ricorrente del cerchio, al termine dei giochi olimpici, ricorda davvero l'infinito molto più che le manette. Tutte la dolcezza dell'Oriente viene portata davanti agli occhi di noi finti sportivi, che abbiamo guardato con ammirazione, mangiando gelati, la fatica degli atleti dal divano e dalla tv.
Ed ecco, all'improvviso, irrompe Londra per il passaggio del testimone. Immagino i poveri coreografi inglesi alle prese con la sfida impossibile: partiamo con un po' di animazione grafica, perché loro avranno un miliardo e mezzo di abitanti, ma noi a Londra cosa abbiamo? Dei creativi. La sigla parla chiaro: scorrono icone di punk, di pubs, di gente infelice e di nuvolette grigie; i prossimi giochi dovranno vedersela con le folle del Tube, la CCTV e la pioggia instancabile. In Inghilterra ci sarà poco candore, ma c'è tanto rock'roll: sarà per questo che da un finto autobus a due piani, unico scarno ornamento della geniale risposta inglese, tra lo stupore delle armoniose folle asiatiche spunta inaspettato uno spavaldo Jimmy Page, a tutt'oggi scatenato su Whole Lotta Love. E poi David Beckham, in tuta. L'oro per la magnificenza spetta alla Cina, ma complimenti ai londinesi per il solito senso dell'umorismo.