'Non di sole espulsioni…' prospettive sulla politica migratoria europea
14 Aprile 2008. I risultati degli scrutini per l'elezione della XVI Legislatura non lasciano spazio a dubbi: gli italiani hanno dato una larga maggioranza alla coalizione di centrodestra, guidata ancora una volta da Silvio Berlusconi. La vittoria del fondatore di Mediaset può essere spiegata da molti fattori complementari ed in particolare, secondo i sondaggi elettorali[1], tra i principali vi è il diffuso senso di insicurezza presente tra la popolazione italiana e la preoccupazione circa l'immigrazione clandestina. La coalizione di centrodestra, ed in particolare la Lega Nord, vengono viste come meglio in grado di rispondere con efficacia a questi sentimenti di preoccupazione, e molti italiani votano così per il quarto governo Berlusconi in quindici anni, anche se forse alcuni di essi non gradiscono così tanto la figura del “Caimano”.
Non è la prima volta che questo avviene: si afferma spesso che il tema “immigrazione e sicurezza” sia stato fondamentale per favorire il successo del centrodestra anche nel 2001, e che sia alla base della forza acquisita negli ultimi venti anni dal partito di Umberto Bossi.
E questo fatto non riguarda solo l'Italia: guardando i risultati dell'Eurobarometro si osserva che l'immigrazione è considerata uno dei problemi fondamentali del proprio paese da più di un quinto dei cittadini europei[2]. Sempre in ambito europeo, l'insicurezza diffusa e la crescente intolleranza nei confronti degli immigrati possono spiegare buona parte dei recenti (e fortunatamente estemporanei) successi dei partiti di estrema destra in Francia, in Germania, in Belgio, ed il crescente attivismo dei gruppi xenofobi in molti paesi dell'Unione.
L'immigrazione è senza ombra di smentite uno dei temi sociali fondamentali di questo inizio del secolo per l'Europa: i cittadini sono particolarmente sensibili ad esso, e indirizzano il loro voto anche secondo le loro opinioni e percezioni rispetto a questo tema.
Eppure non possiamo laicamente che constatare come l'intervento della politica in questo ambito sia stato del tutto insufficiente a soddisfare le richieste dei cittadini. Questo è vero in paesi come la Francia o la Spagna, ed anche e soprattutto in Italia. Di fronte all'inefficacia della politica nazionale si sente sempre più spesso affermare che il problema stia nella dimensione inadatta dell'intervento: le politiche immigratorie dovrebbero essere definite a livello europeo, poiché a quel livello si possono regolamentare i flussi.
Lungi da me l'idea di criticare questa asserzione: si può in effetti oggi parlare di un “sistema migratorio europeo” con flussi che provengono in maggioranza da est e da sud, ed una politica dei flussi che vuole regolare questi flussi non può che essere sistemica e dunque europea. Ma la questione della regolamentazione e della riduzione dei flussi non è più centrale. Il dibattito politico rimane incentrato sull'ingresso dei clandestini, o sull'immigrazione lavorativa (quella “che ci toglie il lavoro”) ma non si coglie il fatto che la maggior parte degli ingressi avvengono oggi per riunificazione familiare o per richiesta di asilo. Si lega il tema dell'ingresso dei clandestini a quello della criminalità, quando il problema degli atteggiamenti criminosi si pone sostanzialmente per quelle sacche di povertà ed emarginazione rappresentata dagli immigrati che sono già sul territorio italiano.
È come se anziché analizzare le richieste dell'opinione pubblica, vagliarle e comprenderne le vere ragioni e spiegazioni, la politica si accontenti sempre più di assecondare il metodo di giudizio dei propri elettori anche quando questo è chiaramente limitato. E questo non sembra essere un buon principio di governo per uno Stato che dovrebbe mirare a soddisfare i bisogni e le richieste degli individui valutando liberamente quali possono essere gli strumenti più efficaci per farlo. In pratica, mentre è necessario ed importante ridurre il senso di insicurezza nei cittadini, per lo Stato non è il caso di abdicare alla funzione di analisi della società e limitarsi ad accettare l'idea sbagliata che questa insicurezza sia frutto dell'ingresso di lavoratori immigrati. Tanto meno è il caso di indugiare nell'errore di considerare la presenza di individui di culture differenti nel proprio Paese come un fattore di insicurezza di per sé.
Cosa dunque lega il fenomeno immigratorio con l'insicurezza dei cittadini europei? Il punto di contatto è da ricercarsi, a mio parere, nell'emarginazione degli immigrati. L'ipotesi che si può avanzare è che le società dell'Europa Occidentale abbiano conosciuto un progressivo miglioramento della percezione della qualità di vita dal dopoguerra in poi, e che il successivo peggioramento sia stato affiancato (e forse in parte alimentato) dall'afflusso di immigrati. L'immigrato nella coscienza collettiva dell'Europa di oggi, nella mente della gran parte dei cittadini di reddito medio e medio-basso, è ciò che era il povero di una volta: un individuo reietto, che si comporta in modo incomprensibile e talvolta addirittura disgustoso per gli italiani. È la figura del “Povero” tratteggiata esattamente cento anni fa dal grande sociologo George Simmel[3]. Il riemergere di questa figura nella percezione dell'opinione pubblica è stato esso stesso fattore di peggioramento della percezione della qualità di vita, aldilà degli altri peggioramenti che stavano avvenendo sul piano “oggettivo” (riduzione del welfare state, polarizzazione dei redditi, l'impatto di breve termine della “distruzione creativa” generata dalla globalizzazione, ecc.).
In questo contesto in cui ciò che conta primariamente è la “percezione”, ha poca importanza che il Povero sia solo una delle molteplici figure che gli immigrati rappresentano nella nostra società, e non certo la più importante in termini numerici: nonostante la realtà sia ben diversa, i cittadini italiani tendono a legare all'immigrazione dall'Africa l'immagine drammatica delle barche di disperati sulle coste della Puglia, e finiscono con l'individuare nel rom l'ideale rappresentante dell'immigrazione dall'Est Europa. Si tratta di errori grossolani, come grossolana è la criminalizzazione di interi gruppi etnici (gli albanesi prima, i rom adesso), eppure la politica sembra non riuscire a pensare a niente altro per ridurre il senso di insicurezza nei cittadini che a degli interventi che sono il punto di sintesi tra le spinte illiberali e repressive volute da una quota di elettori sempre più crescente ed i principi dello Stato di Diritto che rimangono a guardia delle democrazie parlamentari. L'inefficacia di questa mediazione nel riuscire a rafforzare la percezione di sicurezza, d'altra parte, sta rinvigorendo le spinte all'intolleranza e mettendo a dura prova la capacità di resistenza dei principi liberali: il caso delle norme “anti-rom” proposte dal Ministro dell'Interno Roberto Maroni appare in questo senso esemplare.
La tesi che si può avanzare è che il quadro percepito dagli italiani e da molti altri cittadini europei sia sostanzialmente fallace. L'insicurezza non è data dalla presenza dell'immigrato in sé, ma dalla riemersione della povertà, e dal portato di incomprensione ed illegalità che la accompagna necessariamente. Il contatto di una società con “il diverso” può naturalmente portare all'emergere di un sentimento di sospetto, o anche alla sottolineatura della propria identità culturale. Ciò che si può affermare, però, è che questo sospetto non diventerebbe sentimento di intolleranza se non esistessero situazioni di assoluta ed intollerabile emarginazione tra i “diversi” cui si entra in contatto.
Su questa base, la politica dovrebbe spostare l'attenzione dei suoi interventi dalle politiche dei flussi alle politiche di integrazione: concentrarsi non sui pochi che entrano, ma sulle condizioni di coloro che sono già sul nostro territorio, ed in molti casi in condizioni di regolarità. L'esistenza di eccessive sacche di emarginazione è in effetti uno dei limiti più grossi al corretto funzionamento di una democrazia liberale[4], lo Stato può agire in diversi modi per autoperseverarsi di fronte all'emarginazione degli immigrati: può reprimere ed escludere queste sacche ai margini della società, così da liberare la percezione dei cittadini dalla loro esistenza (una soluzione attuata da molti grandi centri urbani, che definiscono e distinguono le aree dei cives da quelle degli emarginati), oppure può cercare di espellerli (come il Governo Berlusconi sembrerebbe voler fare).
La realtà è che entrambe le politiche sono risultate fallimentari e non hanno prodotto che successi limitati nel breve periodo ed ulteriore insicurezza nel medio e lungo periodo: si tratta allora di cominciare a vedere in un'altra politica, quella dell'integrazione sociale ed economica, il principale strumento per ridurre l'insicurezza dei cittadini europei. Non si tratta di una politica semplice: essa deve vedere nel rispetto dello Stato di Diritto da parte degli immigrati uno dei suoi cardini fondamentali, ma d'altra parte deve rappresentare un autentico patto sociale tra Stato ed immigrato, non di molto dissimile a quello che si teorizza alla base dell'autorità statale sui cittadini. Su quali debbano essere concretamente le politiche di integrazione da attuare i punti di vista sono svariati, ed il dibattito è troppo spesso più ideologico che pratico: molte di esse dovrebbero forse venire giudicate senza pregiudizi nei soli termini della loro efficacia ed efficienza rispetto all'obiettivo da raggiungere (ridurre l'emarginazione, dar vita ad un benefico patto tra autorità politica e immigrati, e tra questi e la società europea, e ridurre così l'insicurezza e l'intolleranza). Per certo, si tratta di politiche che beneficerebbero di un coordinamento europeo, soprattutto per quegli Stati (come l'Italia) dove la classe politica sembra sempre più propensa a dar ascolto alla piazza, che chiede inutili misure repressive nei confronti dei flussi immigratori. E d'altra parte, è anche vero che l'Unione Europea ha finito col concentrarsi anch'essa sulle politiche di repressione dei flussi piuttosto che su quelle di integrazione. Nell'ambito UE, infatti, il dibattito sulla politica migratoria comunitaria si è concentrato per la gran parte sui controlli alla frontiera, sul coordinamento delle indagini di polizia, e sul “burden-sharing” per i costi delle politiche di controllo, restrizione ed espulsione degli immigrati irregolari[5]. Un miglioramento si è avuto dall'anno scorso, quando è partito lo “European Fund for the Integration of Third Country Nationals”, che sostiene le iniziative da parte degli Stati Membri nel campo della integrazione degli immigrati, e che dovrebbe anche fungere da piattaforma attraverso la quale condividere le “best practices” attuate dai diversi Paesi. Aldilà degli incentivi economici, però, la possibilità delle istituzioni europee di incidere efficacemente nel campo delle politiche immigratorie è ad oggi minata dal principio di unanimità nel processo decisionale: sulla gran parte delle decisioni che riguardano gli immigrati ogni Stato Membro ha potere di veto in Consiglio. Il passaggio dall'unanimità alla maggioranza qualificata è comunque stato richiesto da molti paesi ed era previsto tanto dal progetto di Convenzione Europea bocciato dai referendum francese e olandese, quanto da quello recentemente bocciato dall'Irlanda[6]. Il superamento dell'impasse al progetto di integrazione istituzionale europea, dunque, appare importante anche dal punto di vista della politica immigratoria dell'Unione.
[1] Si veda in particolare il sondaggio IPSOS pubblicato su il Sole 24 Ore del 28 marzo 2008”.
[2] Nel corso del 2007 questa quota è andata decrescendo per fare posto alle preoccupazioni legate alla disoccupazione ed all'andamento dei prezzi, in vista della recessione imminente.
[3] “Il Povero”, in “Sociologia: Ricerca sulle Forme di Associazione” di George Rimmel, edizioni La Comunità, 1989.
[4] Si veda a questo proposito “The Boundaries of Citizenship: Race, Ethnicity, and Nationality in the Liberal State” di Jeff Spinner, Johns Hopkins University Press, 1995.
[5] Si veda a questo riguardo “Immigration Policies in the European Union: Still Bringing Up the Wall for Fortress Europe?” di Petra Bendel, Migration Letters, Vol. 2(1), pp. 20-31, 2005; si vedano anche gli Annual Report on Immigration and Integration, prodotti nel 2004, 2006 e 2007 dalla Commissione Europea e disponibili sul sito del Commissario per la Giustizia e gli Affari Interni ().
[6] Si veda .