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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 44 - 1 Agosto 2008 | 1 commento

Felicità paradossale







Dopo quasi due secoli di eclissi, la parola felicità oggi sta tornando in auge nei dibattiti sul percorso da intraprendere per incrementare il benessere, non solo economico, di una comunità. Non è un caso che, nelle relazioni di presentazione del bilancio di previsione, il cancelliere dello scacchiere del Regno Unito, Gordon Brown, abbia fatto per la prima volta un esplicito riferimento ai nuovi paradigmi dell'economia della felicità.

È questa una rivoluzione iniziata circa trent'anni fa quando, dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa, si iniziò a misurare la felicità delle persone tramite dei questionari e a confrontarla con i tipici indicatori economici, reddito e ricchezza in particolare. Ciò che emerse dai primi studi è oggi noto come il paradosso della felicità in economia, vale a dire la quasi inesistente correlazione tra reddito e benessere delle persone, o tra benessere economico e felicità, almeno nei paesi considerati sviluppati. I dati raccolti lungo diversi anni dall'economista e demografo Richard Easterlin attorno al 1974 mostrano come, al di sopra della soglia remunerativa dei 20.000 euro all'anno, più si aumenta il reddito e più si è infelici.

Come si giustifica il paradosso? La spiegazione più convincente è che il nostro star bene dipende dal consumo dei beni materiali (cibo, vestiario, casa, etc) e dalla produzione dei beni immateriali o relazionali (fiducia, reciprocità, amicizia, matrimonio, affetti, etc). Per il fatto di ottenere ulteriori quantità di reddito si sacrifica la produzione di beni immateriali, e quindi anche il suo consumo, perché il bene relazionale richiede tempo e soprattutto la personalizzazione. E siccome lo scopo della vita non è l'utilità derivante dal consumo di più beni materiali, ma dalla felicità della produzione di beni immateriali si diventa più infelici.

C'è veramente qualcosa di nuovo in questa teoria oppure si tratta di una di quelle curiose trovate degli economisti poco aderenti alla realtà? Che il paradosso della felicità in economia sia qualcosa di realistico è evidente se si prende in esame alcune scelte degli attori economici (soprattutto giovani) in famiglia, nel lavoro e nel processo di consumo tout court.

Famiglia. Fino a ieri lo schema tipico di una famiglia italiana vedeva generalmente il capofamiglia stare molto tempo assente da casa per lavorare e guadagnare molto. I figli restavano in genere con la mamma e il papà recuperava la sua assenza “giustificata” comprando il giocattolo super sofisticato al proprio figlio, illudendosi così di farlo contento. È orami noto ai più, al contrario, che fino ai cinque e sei anni il bambino non è tanto interessato all'utilità data dalle cose, quanto a relazionarsi stando più tempo con genitori. I bambini di questa età, infatti, non hanno dubbi nello scegliere fra giocare da soli con una macchinina elettronica o giocare a nascondino con il papà! Sebbene non ci siano dati a conferma, ma solo alcune osservazioni sul campo educativo, il genitore moderno intenderebbe scardinare questo modus operandi che ha caratterizzato le nostre famiglie e interpretare così, sui generis, il paradosso della felicità.

Consumo tout court. Veniamo da una stagione nella quale la categoria dei soldi era legata solo alla componente materiale. Questo andava bene fino a ieri, ma oggi è necessario attrezzarsi di nuovi strumenti interpretativi perché lo scopo della vita non è l'utilità derivante dal consumo di più beni materiali, ma dalla felicità della produzione (e consumo) di beni immateriali. Il rifiuto della violenza della gran parte del mondo giovanile per vincere le battaglie sociali ed economiche del nuovo millennio (boicottaggio Nike, Nestlè, Reebok, etc) e il crescente interesse verso forme di economia che usano il mercato per fini di solidarietà (finanza etica, commercio equo e solidale, etc) costituiscono un esempio concreto dell'ingresso della felicità nella funzione obiettivo del processo di consumo di ciascun individuo.

Lavoro. Alcune indagini testimoniano come proprio i giovani abbiano risolto un trade-off di non poco conto: meglio un lavoro meno remunerativo, ma più relazionale. In altre parole questa generazione giovanile, e il mondo postfordista che l'accompagna, riconosce che il meccanismo di sviluppo economico che passa solo attraverso la produzione di beni materiali non funziona più, anche se è andato bene fino ad oggi perché ha sradicato le generazioni dei nostri genitori e dei nostri nonni da una situazione di malessere e di povertà. Lo sviluppo futuro deve passare attraverso la produzione dei beni immateriali.

La domanda alla quale rispondere per i prossimi decenni diventa allora: i nostri genitori ci hanno insegnato a produrre dei beni materiali e sappiamo tutti come essi vengono prodotti; quello che invece risulta poco chiaro, ed è qui che parte la sfida dei giovani (ma non nelle piazze!) è capire come fare ad organizzare il nostro modello economico e sociale in modo da ottenere beni relazionali, perché non abbiamo ancora soluzioni pronte.

Per almeno tre secoli l'economista è stato percepito come la persona competente a dare suggerimenti per migliorare le condizioni di vita, cioè aumentare il reddito per stare meglio. Oggi questo obiettivo è stato raggiunto e il compito dell'economista odierno è profondamente mutato nell'interpretare in modo nuovo le vicende economiche, soprattutto analizzando la possibilità di vivere esperienze o situazioni cui l'individuo attribuisce un valore positivo, perché “a qualsiasi età è bello occuparsi dell'animo nostro”.

1 Commento

  1. Grazie per l'accurata sintesi che condivido appieno.

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