La grande crisi dei mutui spazzatura – parte seconda
L'ammontare della “bolla”
Potremmo così essere alle soglie di un collasso finanziario di dimensioni colossali. Ovviamente l'ammontare dei crediti insolvibili da mettere in perdita ai loro possessori non è misurabile con certezza, anche perché la compravendita di CDO ed altri titoli connessi è avvenuta in gran parte tra privati e fuori mercato. Le organizzazioni finanziarie internazionali hanno comunque provato a farne una stima che però coll'andar del tempo è diventata sempre più grande. Nell'agosto 2007 per il governatore della FED c'erano appena 100 miliardi di dollari di perdite in giro, però a novembre l'OCSE ne ha portato l'ammontare a 200-300 miliardi che la Banca d'Italia, a gennaio 2008, ha innalzato a 600 miliardi. Una valutazione complessiva di tutto quanto è a rischio d'insolvenza – non solo i mutui sub-prime ma pure i mutui primea tasso variabile, non solo le carte di credito delle famiglie ma anche le banche e le imprese che hanno acquistato CDO ad alto rischio, non solo i derivati di subprime ma pure le monolines sull'orlo del fallimento (come Ambac e Mbia) e le agenzie di rating che perdono valore in borsa – porta però ad una cifra superiore ai 1000 miliardi di dollari, giusta la stima del Fondo Monetario Internazionale ad aprile 2008 ed il titolo del primo libro americano sulla crisi (The trillion dollar meltdown di Charles Morris). E siccome a tutt'oggi sono state effettuate svalutazioni presso i principali istituti finanziari (Merrill Lynch, Citigroup, UBS, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Nomura, Lehman Brothers, JPMorgan Chase, Crédit Suisse, Deutsche Bank, Abn Ambro, Société Générale, Paribas, ecc.) per un ammontare di soli 200 miliardi, resterebbero ancora “in pancia” 800 miliardi di dollari di perdite da rivelarsi. A meno che non abbia ragione Nouriel Roubini, il più catastrofista tra gli economisti, che ha valutato la cifra impressionante di 3000 miliardi di dollari di perdite, esattamente quanto stimato da Stiglitz come il costo delle guerre americane in corso e come il valore previsto da John Paul dell'“affare irakeno”, se fosse andato a buon fine.
Come rimediare alla “bolla”
Per iniziare a smaltire il buco finanziario, sia le imprese multinazionali che gli istituti finanziari possessori di titoli-spazzatura hanno cominciato a mettere le perdite a bilancio, e questo non solo negli USA ma pure in Europa (una delle banche più colpite dalla crisi dei mutui americani è il colosso bancario elvetico UBS, che ha chiuso l'anno 2007 in rosso per la prima volta dalla sua nascita e prevede una perdita netta di circa 4,4 miliardi di franchi svizzeri. Anche Deutsche Bank e Merrill Lynch hanno chiuso in rosso: la prima per 131 milioni di euro e la seconda per 1,96 miliardi di dollari. Da parte sua Goldman Sachs ha tagliato del 15% il personale).
A rimedio la FED si è precipitata a cambiare la politica monetaria dedicandosi ad una frenetica riduzione del tasso d'interesse che è arrivata (per ora) al 2%. Ma non è stata seguita (sempre per ora) dalla Banca Centrale Europea, che pure aveva rialzato il tasso d'interesse fino al 4% del 2007 e poi continua a lasciarlo lì. Di conseguenza l'euro si apprezza sempre più sul dollaro, invogliando i risparmiatori ad abbandonarlo a favore della moneta europea (ma dove porterà questa “guerra monetaria” non è ancora dato a sapere…).
A Londra il governo laburista, invertendo la tradizione delle privatizzazioni, ha deciso di nazionalizzare una grande banca sull'orlo del fallimento, la Northern Rock, trasferendone (ma solo temporaneamente, secondo l'intenzione) la proprietà al settore pubblico; la Germania ha soccorso con denaro statale la Ikb Deutsche Industriebank; negli Stati Uniti la Bearn Stearns è stata acquistata dalla JP Morgan, preventivamente finanziata dalla FED. Sono forse i sintomi di un ritorno al tanto deprecato “capitalismo di Stato” negli anni della globalizzazione trionfante? Si sa che i lavoratori possono essere licenziati e le imprese possono fallire, ma le banche no. E quindi, vai al loro salvataggio!
Citygroup, Merrill Lynch, Morgan Stanley, UBS, Deutsche Bank, Blackstone e Barclays hanno invece scelto di chiedere aiuto ai fondi sovrani. Che fossero di Abu Dhabi, Singapore o Pechino non fa fatto, visto che il denaro non ha odore. Ma cosa sono questi “fondi sovrani”?
Ci salveranno i “fondi sovrani”?
La crisi in corso è originale perché non investe tutto il mondo. L'occidente ne viene colpito pesantemente, soffrendo d'insufficienza di liquidità, ma altrove… Altrove perdura il bel tempo, se il FMI prevede per il 2008/2009 una crescita del PIL superiore al 6 % in Russia, all'8% in India e oltre il 9% in Cina. Chi sta guadagnando dalla crisi sono i paesi che esportano energia (petrolio e gas) con prezzi in crescita, oppure che hanno surplus commerciali nell'esportazione di merci e servizi grazie ai bassi costi della manodopera. In cambio questi paesi incassano valuta estera che viene conservata quale riserva a difesa del tasso di cambio. Tuttavia queste riserve possono raggiungere un ammontare eccessivo, ed ecco la nascita dei fondi sovrani (sovereign wealth funds) destinati ad investire in strumenti patrimoniali e finanziari (e quindi azioni e obbligazioni, ma pure immobili ed imprese) quell'eccesso di riserve posseduto.
I fondi sovrani sono così nati nei paesi forti esportatori di petrolio: Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Norvegia (ed è il fondo pensione pubblico!), ma anche Singapore dove, grazie al rilevante surplus fiscale, il governo ha costituito il fondo Temasek, uno dei primi nati (nel 1974) e anche uno dei più attivi. Molto vivaci sono anche i fondi sovrani di Abu Dhabi e quello di Dubai, che detiene una quota del 5% nella Ferrari. La Cina dispone di ingenti riserve di valuta estera, grazie al notevole surplus commerciale, che ha investito soprattutto in titoli di Stato americani. Con la svalutazione del dollaro i Treasury Bond non sono risultati più tanto convenienti e così nel 2007 è stato costituita la China Investment Corporation, un fondo sovrano con una dotazione di 200 miliardi di dollari attivo sul mercato azionario.
Sebbene la presenza dei fondi sovrani non sia una novità, è soltanto con lo scoppio della “bolla” dei mutui sub-prime che la loro presenza si è mostrata con tutta la sua importanza. Le svalutazioni subite dai principali istituti finanziari potevano infatti essere ripianate grazie alla liquidità posseduta da quei fondi. E così è stato: soltanto nello scorso anno i primi 10 fondi sovrani hanno investito 73 miliardi di dollari spalmati su 52 operazioni di salvataggio o acquisizione. Nessuno ha eccepito sul fatto che fossero investitori governativi stranieri – e così Abu Dhabi è entrato in Citigroup, Dubai in Deutsche Bank, Singapore in UBS, Merrill Lynch e Barclays, mentre la prima operazione di China Investment Corporation è stata l'acquisto di circa il 10% del gestore di private equity Blackstone, cui ha fatto seguito l'investimento di 5 miliardi di dollari (il 9,9%) in Morgan Stanley.
I fondi sovrani non sono però del tutto innocui, avendo alcune caratteristiche difficili da digerire dal “libero mercato”. Innanzi tutto sono statali (sono i governi che li possiedono, compresi stati come Cina e Russia); non rispondono ad azionisti privati né sono tenuti a dare comunicazione ai mercati (non sono perciò “trasparenti”); non avendo di mira un dividendo annuo, investono nel lungo termine piuttosto che nel “mordi e fuggi” a breve, adottando strategie patrimonialistiche piuttosto che speculative; siccome la massimizzazione del profitto non è l'unica motivazione delle loro scelte, possono avere obiettivi di partecipazione in settori strategici (come infrastrutture, finanza, high tech, risorse energetiche e materie prime); sono particolarmente appetibili perché offrono liquidità immediata, ma se finora sono rimasti investitori “passivi”, potrebbero nel futuro chiedere di contare nelle decisioni aziendali, a partire dal diritto di voto in assemblea.
Il dibattito a favore o contro l'ingresso di questi fondi nel sistema proprietario delle imprese occidentali è appena all'inizio: respingerli oppure accoglierli a braccia aperte? L'esito dipenderà dalla dimensione della crisi. Attualmente i fondi sovrani sono presenti sul mercato con un ammontare complessivo stimato attorno ai 2500 miliardi di dollari, ma per il 2015 si prevede che ne avranno 12.000 miliardi (che, tanto per dare un'idea, corrispondono grosso modo al PIL attuale degli Stati Uniti). Troppi soldi per lasciarli alla finestra, se mai la crisi dovesse approfondirsi. Ma allora ne potrebbe derivare una mutazione epocale del rapporto imperialistico perché Europa e Stati Uniti, dal tempo di Lenin esportatori di capitali in tutto il mondo, finirebbero per diventare importatori di capitali altrui. Con tutte le conseguenze del caso.
Quanto è coinvolta l'Italia?
L'Italia sembra coinvolta solo marginalmente dalla crisi dei mutui. Il buco finanziario presentato dalle banche nazionali è relativamente basso, la più colpita essendo Unicredit con una esposizione ai mutui ad alto rischio iscritti a bilancio che a fine ottobre 2007 è stimata attorno ai 354 milioni di euro.
Ma le perdite interessano anche fondi d'investimento e fondi pensione, oltre che diversi enti locali, dai comuni alle regioni, che sono caduti nella trappola dei “derivati”. Secondo una ricognizione del Ministero dell'Economia a fine 2007 sarebbero 531 gli enti locali coinvolti per un ammontare complessivo di 38 miliardi di euro. La metà del debito (18 miliardi) farebbe capo a 19 regioni su 20, ma sarebbero coinvolte anche le province (per 3,5 miliardi), i comuni capoluogo (per 13 miliardi) e non capoluogo (per 3,5 miliardi) e perfino tre comunità montane (per 11,4 milioni di euro). L'obiettivo era di ottenere finanziamenti “a pronti” con periodi d'ammortamento lunghi abbastanza per gonfiare i bilanci senza aumentare le tasse comunali e rimandare alle giunte successive il debito da restituire comprensivo degli interessi (comunque con tasso a calare, che era quanto si prevedeva). Tutto questo per aggirare, senza tante discussioni politiche in assemblea, il taglio dei finanziamenti statali imposto dal “patto di stabilità interno” (che fa il paio, all'interno, con il più noto “patto di stabilità” di Maastricht).
E' difficile recuperare i dati relativi ai singoli enti che hanno sottoscritto contratti derivati. L'unico elenco distribuito al pubblico è quello di Unicredit da cui risulta che i comuni lombardi clienti sono 16, tra cui Milano, per un totale di 950 milioni di euro. Il comune di Milano è attualmente indagato dalla magistratura per i contratti derivati collegati al maxibond emesso dalla giunta Albertini nel 2005 per rifinanziare alcuni vecchi mutui. Come riporta “Il Sole-24 ore” del 27 novembre 2007, per effettuare questa operazione la Giunta aveva selezionato quattro arranger: Depfa, Deutsche Bank, JP Morgan e UBS, a cui è stato dato un compenso dello 0,01%, pari a 168mila euro. Un volta selezionate le banche, Palazzo Marino ha lanciato il prestito obbligazionario a tasso fisso per un importo di 1,85 miliardi di euro. Ha però poi deciso anche di costituire uno «swap5 di ammortamento» (per trasformare la scadenza, che era in un'unica soluzione, in un piano di ammortamento pluriennale) e «una operazione di strumenti derivati di gestione del tasso d'interesse» (per trasformare il tasso fisso in uno variabile, perché si supponeva che diminuisse; quando invece è aumentato, il Comune si è accorto che il costo dell'operazione finanziaria aveva «subito un aumento superiore alle aspettative»). Il Comune ha sostenuto che il maxibond avrebbe fatto risparmiare 54,7 milioni di euro rispetto ai mutui preesistenti, più altri 5 milioni circa grazie allo swap5 sui tassi di interesse. In realtà, tra la prima firma di giugno 2005 e la rinegoziazione del settembre 2005, il Comune ha dovuto subire 20 milioni di costi dalla risoluzione anticipata di alcuni derivati già in essere con Unicredito banca d'impresa, più 48,1 milioni di valore negativo riguardante la parte di swap che andava risolto e che è stato assorbito dai quattro arranger, subito chiuso e addossato come minusvalenza sul derivato successivo. Questi 68 milioni di euro complessivi non tengono però conto delle commissioni bancarie da 30 milioni di euro, anch'esse assorbite come minusvalenza nel derivato legato al maxibond. Le rinegoziazioni successive hanno peggiorato la situazione con condizioni sempre più svantaggiose per il comune. Comunque si attendono i risultati della commissione di esperti, istituita dal Comune, per valutare l'entità del danno subito dall'amministrazione (cfr. “Il Sole-24 ore” del 7 febbraio 2008).
voglio fare una premessa: parlo da ignorante… sò davvero poco di economia. La mia conoscenza si limita alla consapevolezza che succederà qualcosa di incontrollabile. Infatti leggendo quest'articolo e quello dello scorso numero mi sono reso conto di quanto questi meccanismi risultino incontrollabili e complessi da capire e rendano tutti noi impotenti.
Qualcosa succederà… ma cosa? E come possiamo prepararci alla crisi? Cosa può fare il signolo cittadino per evitare di essere travolto dalla valanga?
caro Angelo, ti rispondo io eprchè temo che il prof. Gattei non intervenga direttamente in questo sito.
quello che succederà è uno stravolgimento degli equilibri mondiali in cui gli USA sono destinati a lasiare il posto alle nuove superpotenze mondiale.
come si evince dall'articolo questo apssaggio di testimone non sarà immmediato. attraverso i fondi sovrani (con cui si supportano asset pubblici e privati americani) CINA & co. in qualche modo si legano all'economia americana, dipendendone. dovesse cioè l'economia americana affondare, allora anche gli investimenti dei fondi sovrani avrebbero un cattivo esito. diciamo che è quinid nell'interesse della CINA stessa ch el'economia americana non affondi.
sulla seconda domanda ci vorrebbe un libro,e anche in quello sarebeb difficiel trovare delle risposte matematiche.
il problema è che oggi le dimensioni globali dell'economia generano degli effetti domino: è il batter d'ali di farfalla che genera uragani nella parte opposta del mondo.
è difficile stabilire quali siano i canali attraverso cui la crisi economica america colpirebbe (e in quale entità) l'economia europea.
potrebbe ssere utile fare un paiod i paragoni. prendiamo il caso parmalat dove molti cittadini sono stati defrodati perchè hanno erroneamente investito i loro risparmi (colpevoli le banche) in titoli rischiosi. e tuttavia solo chi ha investito in parmalat ha poi pagato. nonc redo che angelo o stefano infatti siano stati colpiti da questa crisi.
nel caso crisi sub-prime la questione è diversa. italiani ed europei non hanno a che fare direttamente conq uesto tipo di mutui e quindi non dovrebbero risentire direttamente di questa crisi. e tuttavia impariamo dall'articolod i gattei che diverse regioni e comuni hanno acquistato pacchetti slasiccia contenenti questi mutui non solventi..quini un cittadino italiano potrebbe pagare in termini di fondi pubblici che sono stati persi a causa di una loro cattiva gestione.
questo tema mi ricorda molto un argomento parallelo trattato nell'arengo da Marcatili, quello del TFR: dall'anno scorso i cittadini possono decidere come investire i fondi TFR, con l'opzione di legarsi al mercato azionario, con i relativi rischi..se il mercato va a ramengo anche i soldi del TFR o dei fondi pensione verranno travolti dalla valanga di cui parli.
in Italia molte risparmiatori, sfiduciosi nel mercato azionario, hanno rpeferito destnare i loro solfìdi in immobili (facendo lievitare i prezzi delle case).
questie sempi riguardano quello che un cittadino può fare, più o meno direttamente, per prevenirsi contro l'altalenamento della borsa.
beh, mi sto dilungando troppo, direi che faremo meglio a disucterne a quattr'occhi.
proverò a rivolgere la tua domanda a Gattei, amgaric i scrive una altro articolo in risposta
http://www.larengodelviaggiatore.info/dblog/articolo.asp?id=382
ecco l'articolo di MARCO sul TFR di cui parlavo