Ingrata Dublino!
Nìl! Così si è espresso il 53.4% degli Irlandesi chiamati a votare il 12 giugno al referendum di ratifica del Trattato di Lisbona, la cosiddetta Costituzione morbida della futura Unione.
Ma come si è giunti al NO irlandese, tenendo anche conto che tutti i partiti politici dell'Oireachtas (Parlamento d'Irlanda), ad eccezione dello Sinn Fèin, si dichiaravano favorevoli al Trattato?
Viaggiando per l'Irlanda e visitando le sue principali città non si può fare a meno di notare le targhe presenti in prossimità di grandi e recenti infrastrutture (strade, ponti, palazzi, …): una bandiera a 12 stelle e una nota in cui si specifica che la costruzione è stata resa possibile grazie ai finanziamenti del Fondo di Coesione dell'UE. Quando l'Eire entrò nella CEE nel 1973, era senza dubbio tra i paesi europei più poveri; oggi è senza dubbio tra i più ricchi e in salute: crescita al 5,3% con un PIL pro capite pari a 43.100€, tasso di disoccupazione al 4,6%, debito pubblico al 24,7%, solo per fare qualche esempio[1] . Risulta quindi paradossale che il paese che ha più beneficiato dall'ingresso in Europa blocchi oggi il processo di integrazione.
Proprio il raggiunto e consolidato benessere può spiegare in primis la bocciatura del Trattato: oggi l'Irlanda non può più usufruire come una volta dei finanziamenti, essendo anzi diventato da beneficiario a contributore netto; ciò non è però sufficiente. Il problema di fondo sembra infatti essere più politico che economico, e ancor più di politica interna. Ci sarebbe innanzitutto da chiedersi il motivo per cui sia richiesto un passaggio referendario per la ratifica di un trattato internazionale, quale è il Trattato di Lisbona, e quanto il popolo sia in grado di capire effettivamente i contenuti di tale documento. In tal senso il Governo irlandese si è attivato con una campagna informativa attraverso opuscoli inviati a ciascuna famiglia ed un sito web ad hoc www.lisbonteatry2008.ie . In precedenza in Irlanda si erano già tenuti cinque referendum su argomenti europei: nel 1972 sull'adesione alla CEE (83,1% dei Sì), nel 1987 l'Atto Unico (69,9% dei Sì), nel 1992 il Trattato di Maastricht (69,1% dei Sì), il Trattato di Nizza nel 2001 e 2002 (prima una vittoria dei No e poi dei Sì con il 62,89%); questa volta un nuovo voto sembra però un'opzione fuori discussione.
Più degli altri questo è stato un voto politico, stravolgendo probabilmente l'esito positivo del referendum. La campagna elettorale è stata all'insegna del populismo, col fronte del No che ha paventato timori ingiustificati: dalla minaccia alla storica neutralità irlandese, alle ripercussioni sulla legge anti aborto, fino alla politica fiscale per le imprese, tema quest'ultimo particolarmente sentito, vigendo una vantaggiosissima aliquota per le imprese multinazionali che rappresentano il vero motore dell'economia dell'isola; sia ben chiaro: nessuno di questi temi viene realmente minacciato da alcun articolo del Trattato. Più delicato l'aspetto relativo all'allargamento e ai nuovi equilibri che si verranno a creare nella nuova Unione: un paese piccolo e scarsamente popolato come l'Irlanda (4.156.119 abitanti al giugno 2008[2]) vedrà indubbiamente il proprio peso politico all'interno delle istituzioni ridursi, sistema però già previsto, e ratificato, dal Trattato di Nizza. Questo è un punto chiave: gli Irlandesi non si sono resi conto che tutto ciò di cui hanno paura era già presente nel Trattato di Nizza.
Ancora non si è data risposta alla domanda relativa al ruolo dei partiti nella campagna elettorale. Una valida spiegazione, oltre che ad una più che condivisibile analisi della questione referendaria, viene data da Antonio Villafranca[3]: la legge elettorale per le politiche in Irlanda si basa sul Single Transferable Vote, ovvero sul voto preferenziale dato a più candidati, dando vita ad accese contrapposizioni anche all'interno di uno stesso partito. Il legame tra candidato e circoscrizione ha un'alta valenza strategica, da qui la facilità nello sfociare nel populismo estremo che ha caratterizzato quest'ultima campagna. All'insegna della cosiddetta pork-barrel politics, tale legame ha neutralizzato di fatto l'appoggio formale dei partiti al Trattato di Lisbona. Oltre a ciò ha giocato il malumore diffuso presso la popolazione nei confronti della classe politica serva dei burocrati di Bruxelles. Un sentimento che va sempre più diffondendosi nei Paesi di una sempre più mastodontica Unione Europea.
Una cosa è certa: il cammino dell'Unione non può più essere intralciato da simili impedimenti, e ancora di più sono finiti i tempi di infinite trattative multilaterali (tra 27 paesi membri!). A chi non è d'accordo il Trattato di Lisbona è chiaro e concede un diritto mai riconosciuto prima: “il trattato di Lisbona riconosce espressamente agli Stati membri la possibilità di recedere dall'Unione.”[4]
Leggendo l'articolo non capisco perchè tanta indignazione nei confronti del “no”: un simile risultato è più che naturale vista la scarsa fiducia nei confronti di quei burocrati che siedono a bruxelles. Inoltre il referendum è la migkiore democrazia partecipata…
Eugenio,
un commento sulla tua ultima frase.
la democrazia partecipativa è pericolosa o dannosa in contesti diverse dalle polis greche (me le eimmagino come luoghi dove tutti si conoscevano).
i problemi principali sono la difficoltà di coordinamento e qunidi di decisione (per questo nei referedum si può dire o si o no) e la incompetenza in materia di molte persone chiamate ad espriemre il loro voto. per questo si passa ad una democrazia rappresentativa dove i cittadini delegano persone più competenti (si spera) per amministrare la RES PUBLICA.
a vent'anni dal 1987 ci accorgiamo quanto sbagliato affidare ai sentimenti e paure degli italiani la decisione di abbandonare il nucleare, ad esempio.
personalmente reputo il referendum uno strumento troppo spesso abusato e che qindi finisce per degenerare in un profondo populismo. altro discorso per i referendum su questioni fondamentali come repubblica-monarchia. con questo non voglio dire che il tema costituzione europea non meriti la dignità di argomento fondamentale.
e comunque, epr quanto poco ne so, con il referendum si era chiamati a dare un'opinione sui principi costituzionali, e non sulla burocrazia. anche oggi, dopo i no di irlandesi, francesi e olandesi, la burocrazia rimane, ma una costituzione necessaria a creare più armonia e unità, nn solo economica, ancora manca
Sono pienamente d'accordo con Stefano, aggiungo chiedendomi, come fatto nell'articolo, fino a che punto possa avere senso ratificare un trattato internazionale attraverso un referendum: perchè questo è il Trattato di Lisbona, un trattato internazionale.
Detto questo, spostando il discorso sull'Irlanda, ho seguito abbastanza attentamente la campagna elettorale attraverso la versione online dell'Irish Independent: di Europa e di Bruxelles si è parlato veramente poco, dire che questo referendum sia stato utilizzato per loschi scopi di politica interna è un eufemismo.
Un'ultima riflessione: tenendo anche conto che l'anno prossimo si terrano le elezioni per il Parlamento di Strasburgo, non si può ora lasciare l'europa in un'appiccicosa melma o ancor più perdere tempo con eterni periodi di riflessione. Il “no” mi indigna perchè il blocco al processo di ratifica è dipeso da una percentuale irrilevante di elettori rispetto alla popolazione totale dell'Unione, nonchè da uno dei paesi più piccoli. Posso anche capire si decida per una ratifica attraverso referendum, ma che sia chiamato allora a votare il Popolo europeo tutto.