Banca Mondiale tra crisi e rinascita
Il 10 maggio del 2007 il Washington Post pubblica un commento di uno dei suoi più influenti opinionisti, George F. Will, dal titolo “Il vero problema della Banca Mondiale”. L'articolo esce in un momento particolarmente difficile nella storia dell'istituto internazionale, all'indomani delle dimissioni del suo Presidente Paul Wolfowitz, dopo lo scandalo delle raccomandazioni da lui fatte in favore della sua compagna per garantirle un posto di prestigio al Dipartimento di Stato. La caduta di Wolfowitz, ex vicesegretario alla Difesa statunitense, tra i maggiori artefici della politica estera del Governo Bush, segna la fine della peggiore presidenza della Banca Mondiale dalla sua nascita nel 1944. Due anni di incomprensioni, inefficienze, e “brutte figure” che hanno colpito l'immagine dell'Istituto agli occhi dell'opinione pubblica internazionale. Ma si è trattato in fondo di un problema temporaneo, cui il nuovo Presidente Zoellick sembra essere in grado di rimediare. Ciò che l'articolo di Will sottolinea, invece, è che una perdita di credibilità di ben altre dimensioni e di ben altra portata sta colpendo la Banca in questo inizio di millennio.
Nelle parole del giornalista, “la Banca sta perdendo la sua battaglia per mantenere la rilevanza internazionale che ha avuto in passato”. In un mondo in cui i capitali erano posseduti in eccesso da pochi paesi, ed i mercati finanziari non riuscivano ad allocare in modo efficiente le risorse, la Banca aveva il ruolo di favorire gli investimenti e intervenire laddove il mercato internazionale dei capitali falliva: nel Sud del mondo. Ma oggi, afferma Will, i mercati finanziari internazionali si sono rafforzati, molti paesi in via di sviluppo detengono ingenti quantità di capitali che vengono allocati su scala globale e favoriscono la crescita e la riduzione della povertà con meccanismi di mercato. Tra questi paesi un ruolo primario è svolto dalle potenze emergenti, i cosiddetti BRIC: Brasile, Russia, India e Cina. Ma ugualmente importanti sono economie più piccole ma altrettanto o più sviluppate, come quelle dei paesi del Sud Est asiatico, o alcune economie dell'America Latina.
Con queste premesse, la critica di George Will si muove con gli argomenti classici dell'economista neoliberista: primo, il prerequisito della riduzione della povertà è la crescita; secondo, i mercati finanziari oggi hanno la possibilità di funzionare efficientemente su scala globale; terzo, non esiste allocazione delle risorse che favorisca la crescita più dell'allocazione di mercato; quindi, è meglio lasciare che i capitali siano allocati dal mercato e non da un'istituzione politica come la Banca Mondiale. L'intervento della Banca è ancora ritenuto necessario, nel breve periodo, ma limitatamente a quei paesi che non riescono ancora a beneficiare dei capitali internazionali: i paesi a reddito basso o bassissimo, che sono sempre meno e sempre meno importanti geopoliticamente.
L'articolo ha avuto una notevole eco sulla scena internazionale, ed ha ridato vita al dibattito sulle ragioni di esistenza dell'istituto nato con gli accordi di Bretton Woods.
La riflessione di George Will è, a parere di chi scrive, un contributo tutto sommato modesto, e facilmente criticabile, ma rimane un buono spunto di riflessione per capire come il mondo sia cambiato negli ultimi venti anni, e come le vecchie istituzioni debbano sapersi rinnovare per non essere condannate alla perdita di rilevanza internazionale.
Una buona critica a Will esce sul Guardian, a firma di Colin Bradford, ex capo economista dell'agenzia statunitense per l'aiuto USAID. La critica poggia su due argomentazioni principali. La prima è che l'obiettivo dello sviluppo coincide solo in parte con la crescita economica. Da almeno venti anni è andato imponendosi un paradigma multidimensionale, per il quale lo sviluppo deve essere misurato tanto nello spazio economico (consumi pro capite) quanto in quelli relativi alla salute, all'istruzione, all'uguaglianza di genere, allo sviluppo istituzionale. Inoltre, l'idea di sviluppo è stata declinata in termini di sostenibilità ambientale (da ormai molti anni) e culturale (più recentemente). La seconda argomentazione è invece una critica all'approccio neoliberista al mercato: esso non è in grado di garantire lo sviluppo multidimensionale, così come non è in grado – senza opportune istituzioni - di risolvere i suoi fallimenti endemici: nell'allocazione dei beni pubblici, nell'accesso diseguale alle risorse, nell'avvicendarsi di crisi globali che hanno colpito l'economia mondiale negli ultimi venti anni.
Che, a dispetto di quanto asseriscono i fondamentalisti del neoliberismo come George Will, il mercato non sia da solo in grado di sconfiggere la povertà e le eccessive disuguaglianze è cosa oramai piuttosto acclarata. Guardando alla realtà odierna, è indubbio che Cina e India stiano beneficiando enormemente della crescita economica a due cifre che le caratterizza da più di quindici anni. Meno chiaro è se questa crescita si abbini ad un miglioramento delle condizioni di vita per tutti i loro cittadini. Ci sono evidenze di un peggioramento nell'accesso all'assistenza sanitaria e all'istruzione in Cina, mentre nel subcontinente indiano il problema della povertà economica rimane in gran parte irrisolto. Dunque, anche per questi paesi a medio reddito, afferma Bradford, vi è spazio per un intervento della Banca Mondiale, che non deve essere considerata semplicemente come una dispensatrice di capitali, come Will sembra fare con un eccessivo semplicismo. La Banca è, secondo Bradford, “una banca della conoscenza almeno quanto essa è una fonte di risorse economiche”.La Banca Mondiale è “un forum dove professionisti di tutte le discipline da tutto il mondo si riuniscono in uno sforzo comune per risolvere problemi complessi, unendo le rispettive conoscenze ed esperienze”. Non c'è dubbio che il ruolo della Banca abbia travalicato almeno dagli anni '70 il compito originario di fornitrice di capitali per lo sviluppo. Eppure, è proprio rispetto a questa considerazione che la visione di Bradford appare fin troppo naive, e non sembra cogliere come la crisi di legittimità della Banca (aldilà delle osservazioni tutto sommato limitate di George F. Will) sia un fatto politico che non può essere negato e che ha ragioni oggettive da ricercarsi proprio nei limiti dell'intervento della Banca come “dispensatrice di conoscenze”.
Dai primi anni '80, con l'influenza dei governi conservatori di Reagan e della Thatcher, la Banca ha progressivamente fatto propria l'ideologia neoliberista ed è intervenuta sulla base di questa visione ideologica, ed in accordo con il Fondo Monetario Internazionale, nei cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale” per le economie in via di sviluppo in crisi.
L'approccio di intervento della Banca puntava a ridurre e limitare l'intervento dello Stato nelle economie dei paesi in via di sviluppo, e ad aprire l'economia ai flussi di capitali esteri. Il pacchetto di liberalizzazioni, privatizzazioni, e deregolamentazioni veniva imposto dalla Banca e dal Fondo, facendo perno sulle risorse finanziarie da loro messe a disposizione. I risultati sono stati tutto sommato negativi: i costi sociali (in termini di povertà, disoccupazione, e disuguaglianza) sono stati enormi, mentre i benefici in termini di crescita economica limitati quando non assenti.
Di fronte ai risultati insoddisfacenti, la Banca ed il Fondo hanno rinnovato il parco delle raccomandazioni da fare ai paesi in via di sviluppo, elaborando “best practices” nel campo della governance, della trasparenza, del design istituzionale. E' questo complesso di norme e raccomandazioni di buona condotta che compone l'ideologia del “Washington Consensus”, così chiamato per sottolineare l'identità di vedute tanto della Banca e del Fondo quanto dell'amministrazione statunitense.
Le conoscenze di cui parla Bradford, dunque, sono finite per essere limitate dalla cappa dell'ideologia: il nuovo millennio porta con sé la fine del Washington Consensus, e con lui entra in crisi la credibilità degli interventi della Banca Mondiale.
Il punto centrale, sottolineato da Jeffrey Sachs in un suo intervento sempre sul Guardian, è che oggi le economie di maggior successo sono quelle dei paesi in via di sviluppo o in transizione che hanno saputo smarcarsi dalle ricette preconfezionate fornite dagli istituti di Bretton Woods. Tra loro, il rilievo maggiore lo sta ottenendo la Cina, una delle grandi potenze del ventunesimo secolo. Grazie ad un sistema istituzionale ben funzionante, la Cina ha proceduto con un'apertura lenta e selettiva ai capitali stranieri. L'approccio è stato quasi sempre anti-ideologico, con una attenzione all'obiettivo (lo sviluppo “armonico” della società) e con pochi pregiudizi circa i mezzi per raggiungerlo. Questo approccio pragmatico, sintetizzato dalla famosa frase di Mao “non importa di che colore è il gatto, quel che importa è che prenda il topo”, si è poi unito al gradualismo ed al testing delle politiche su piccola scala, prima di applicarle a tutto il paese (l'approccio “trial and error” è ben esemplificato dalle zone economiche speciali che hanno preceduto l'apertura al mercato su scala nazionale).
L'influenza del miracolo economico cinese è sempre più sentita, d'altra parte, dagli altri paesi in via di sviluppo (in particolare in Africa, dove gli investimenti cinesi sono in forte espansione), tanto che secondo alcuni autori si può parlare oggi della nascita di un nuovo consensus mondiale: il “Beijing Consensus”. Secondo Joshua Cooper Ramo, collaboratore del Times e senior advisor di Goldman Sachs, l'elemento che sta determinando il sorgere di questo nuovo consensus è il fatto che la Repubblica Popolare stia collaborando sempre più strettamente con i paesi meno sviluppati, fornendo la propria esperienza ed i propri capitali. Il Beijing Consensus, d'altra parte, si differenzia marcatamente dal suo predecessore. Se l'approccio di Washington era ideologico, normativo e prescrittivo, quello cinese rimane sostanzialmente pragmatico, non ritiene di poter fornire delle “ricette” per lo sviluppo, ma si focalizza sul ruolo dell'innovazione e sull'importanza degli investimenti pubblici nell'agricoltura, nelle infrastrutture, nell'accesso all'energia, e nell'istruzione. Come notato da Sachs, l'approccio della Banca Mondiale ha negato l'importanza di questi investimenti, cercando di limitare l'intervento dello Stato nell'economia dei paesi in via di sviluppo. D'altra parte, “quando l'ideologia neoliberista falliva – dice Sachs – la Banca finiva con l'incolpare i paesi in via di sviluppo di corruzione, incapacità di gestire le risorse messe a disposizione, e mancanza di iniziativa”. La modernizzazione e lo sviluppo erano viste come un processo unidirezionale, che si fondava su di una strada comune per tutte le economie. Il nuovo Consensus, viceversa, ritiene che non esista un'unica strada per lo sviluppo, ma che essa dovrà essere trovata in modo originale nei diversi contesti, e che comunque il ruolo dello Stato o più in generale della politica rimarrà importante in ogni caso.
La sfida portata dal mutato panorama geopolitico ed economico è dunque duplice per la Banca: da una parte essa deve estendere la propria attività a quelle aree che riguardano lo sviluppo in senso ampio, visto che la semplice fornitura di capitali ricopre oggi un'importanza minore di un tempo per la gran parte dei paesi in via di sviluppo; dall'altra essa deve saper raccogliere gli stimoli provenienti dalle future potenze globali. Tanto la Banca quanto il Fondo devono superare il binomio USA-Europa, per aprirsi politicamente alle economie emergenti: in questo senso la spartizione delle poltrone di presidenza dei due istituti finanziari tra le due sponde dell'Atlantico appare quanto mai anacronistica. Ma aldilà del peso politico, quello che diventa importante è riconoscere che un'epoca, quella del Washington Consensus, è definitivamente finita e che la Banca deve innovare la logica dei suoi interventi e liberarsi delle rimanenti scorie ideologiche. Si tratta dell'ultima opportunità, se l'istituzione vuole continuare ad avere un ruolo importante nel panorama geopolitico del prossimo futuro.
Riferimenti:
Bradford, Colin; Growth Is Not Enough, the Guardian, 2 luglio 2007. [link]
Cooper Ramo, Joshua; The Beijing Consensus, Foreign Policy Centre: Londra; 2004. [link]
Sachs, Jeffrey; China's Lessons for the World Bank, the Guardian, 24 maggio 2007. [link]
Will, George F.; The Real World Bank Problem, the Washington Post, 10 maggio 2007. [link]
Ciao Francesco,
complimenti per l'articolo.
Per dovere di cronaca, volevo fare una precisazione.
Lo scandalo che coinvolse Paul Wolfowitz non riguardava l'aver assicurato un posto di prestigio al Dipartimento di Stato allla fidanzata.
Il problema era relativo agli aumenti salariali che questa ricevette quando venne trasferita.
Per incompatibilita' e conflitto di interessi, la fidanzata del presidente doveva trasferirsi dalla Banca. Questa e' una procedura piu' o meno ricorrente.
Venne mandata a lavorare per 3 anni allo State Department ma pagata dalla banca.
Il problema fu che l'aumento salariale che le venne concesso era fuori dai limiti massimi imposti dallo statuto interno.
Sorvolo sul caos che emerse quando la cosa divenne pubblica.
Per quanto non mi piaccia e non rispetti Paul Wolfowitz, la cosa vista dall'interno fu ben diversa da come la dipinsero i giornali.
E ho ancora seri dubbi sul fatto che tutta la faccenda non sia stata che una bella trappola orchestrata dall'alto management della Banca per liberarsi di un presidente ingombrante e imposto.
Molti alla Banca non hanno mai accettato il modo di fare unilateralista di Wofowitz. Ne hanno mai accettato di lavorare per uno degli architetti della guerra in Iraq.
Caro Michele,
grazie della precisazione, in effetti l'idea che la faccenda sia stata utilizzata strumentalmente dai dirigenti della Banca è abbastanza comprensibile.
Penso che con Wolfowitz si sia mostrato il limite del “manuale Cencelli” delle Presidenze degli istituti di Bretton Woods (una agli USA, una all'Europa).
Comunque, ti faccio anche io qua i complimenti per i due articoli. Mi riprometto di commentare la tua difesa della BM.
A presto,
francesco