Andreotti sbarca a Cannes. E sugli schermi
Un squadra di mezzi politici e mezzi gorilla, che avanzano verso la telecamera come “Le Iene” di Tarantino; un Giulio Andreotti che si fa radere il viso circondato dai suoi scagnozzi, come Al Capone ne “Gli Intoccabili”. Ha inizio così, a suon di techno music e vistosi omaggi al cinema gangster, la coraggiosa, e cinematograficamente virtuosa, avventura di Paolo Sorrentino nella storia italiana degli ultimi trent'anni: “Il Divo”, film applaudito a Cannes e premiato con il Premio della Giuria, ma che, come giustamente è già stato fatto notare, avrà poco successo al di fuori dell'Italia; per apprezzarlo è necessario conoscere chi erano Aldo Moro e Giovanni Falcone, cos'è stata la fine della DC, cosa potrebbe aver significato la P2. Ma se anche “Il Divo” è destinato a restare un d'essay per pochi eletti, ha comunque il merito di offrire un ritratto della classe politica più intelligente e realistico (seppur con le volute distorsioni narrative e visive) di quello offerto da altri film che recentemente si sono ispirati a personaggi ancora in vita (un esempio negativo su tutti, l'inglese “The Queen” del pur esperto Frears, che dipinge la dinastia Windsor come una famiglia piccolo borghese, che addirittura apprenderebbe della morte di Lady Diana dai notiziari della sera). Ed ecco il vero punto di forza della pellicola di Sorrentino, che chiosa: come una battuta pronunciata nel film dal protagonista, gli affari dei palazzi del potere sono un pochino più complessi. E la complessità del personaggio Andreotti diventa, alla fine dell'opera, il vero enigma proposto agli spettatori.
disegno di Anna Ciammitti
Così la trama e la collocazione temporale: sette volte Presidente del Consiglio, un già maturo Andreotti ha attraversato immune l'omicidio di Aldo Moro, gli anni di piombo, gli strani suicidi di Roberto Calvi e di Michele Sindona. Ma quando la sua aspirazione diventa essere eletto Presidente della Repubblica, la strage di Capaci bloccherà la corsa dello statista al Colle, mentre le dichiarazioni di Buscetta e Di Maggio lo trascineranno in tribunale e la corrente andreottiana della DC si sfascerà sotto i colpi di Tangentopoli. Un film colpevolista o innocentista? Colpevolista decisamente, ma senza supposizioni facili e attraverso uno svolgimento sinottico di grande intelligenza. Grazie soprattutto all'interpretazione del sempre bravo Toni Servillo, viene infatti naturale, a inizio visione, identificarsi con il protagonista, per quanto possibile: un “genio del male” storpio e imperturbabile, colto tuttavia nei suoi momenti più gelidamente umani, e del quale prima di tutto si viene ad apprezzare l'ironia, anche quando spietata.
Ma sparisce presto qualunque comprensione ed empatia verso questo Leopardi della politica (come Leopardi acutissimo e senza illusioni), che per la finezza dei modi, la fuga dai vizi e, se vogliamo, la classe, si distingue dal “branco” della “casta” (qui rappresentata da feste e balli, settecenteschi quando non puramente tribali); la “confidenza” dello spettatore verso il protagonista Andreotti svanisce, riportandolo bruscamente alla realtà, di fronte alla concitata difesa/autoaccusa affidata al personaggio: responsabile diretto o indiretto di tutte le stragi italiane di un trentennio? Sì.
Perché?
Per mantenere l'ordine: perpetrare il male assoluto, per conservare un bene stabile.
A parte questa presa di posizione, Sorrentino non cerca di scovare nuovi scheletri nell'armadio: fin troppo ardita la sua operazione, e i rapporti di Andreotti con la mafia vengono volutamente lasciati al giudizio dei posteri. Ma non manca un'ultima riflessione, che chiude i giochi e il sipario su una vicenda e una biografia che forse, ormai appartengono davvero al passato italiano (storia o cronaca, come direbbe Moro?): conquistato il potere, mantenuto ad ogni costo l'ordine costituito, cosa è stato ottenuto, che cosa è cambiato, a parte le morti, e le famiglie distrutte? “Capisco come, ma non capisco perché”, avvertiva già negli anni quaranta Winston Smith dalla penna di Orwell.