La grande crisi dei mutui spazzatura
La versione integrale riassunta in questo articolo si può leggere qui
1. Quando nel 2001 alla crisi della new economy si è aggiunto l’attentato terroristico dell’11 settembre, gli Stati Uniti l’hanno vista brutta. Si temeva che prendesse piede una “economia della paura” capace di bloccare la crescita futura del PIL. A rimedio la scienza economica insegna che si possono aumentare i consumi delle famiglie grazie all’aumento dei salari (ma con danno ai profitti), favorire gli investimenti delle imprese mediante l’abbassamento dei tassi di interesse, aumentare la spesa pubblica anche in deficit spending, ossia senza copertura finanziaria. E se poi in quest’ultimo caso si presentano difficoltà politiche insormontabili, c’è la guerra che non soffre di tanta opposizione (è quello che in gergo è detto il “keynesismo militare”).
Subito il governo Bush jr. sceglie la via della guerra, avendo per obiettivo il rilancio della produzione nazionale tramite le commesse belliche e la riduzione del prezzo del petrolio guadagnato quando, a vittoria ottenuta, sarebbero affluite sul mercato le ingenti riserve irakene. Anche la Federal Reserve fa la sua parte abbassando il tasso di sconto dal 6,5% (gennaio 2001) all’1% del giugno 2003. Qui però s’impone una modifica rispetto alla teoria, non potendosi più fare affidamento sulle imprese che, in epoca di globalizzazione, hanno delocalizzato all’estero, dove il costo della manodopera è più basso, e non sono più tanto interessate ad investire in patria. Così, con innovazione pratica straordinaria, si decide di rivolgere la riduzione del tasso di sconto al sostegno dei consumi delle famiglie favorendone l’indebitamento ipotecario immobiliare. Tutti devono diventare proprietari di casa propria. E siccome si annuncia che il tasso di sconto sarebbe ancora diminuito, si incoraggiano i mutui a tasso variabile, così che sulle rate da pagare risultino nel tempo interessi sempre più ridotti. E siccome il valore di un immobile è dato dalla somma delle rate da pagare divisa per il tasso di sconto, con la diminuzione di questo le famiglie si vedono aumentare il valore della casa messa a garanzia del debito contratto per acquistarla, e su quell’aumento di valore possono chiedere altro credito alle banche da destinare direttamente ai consumi.
Per sostenere al massimo la crescita del PIL si decide poi di aprire il credito a chiunque, perfino ai clienti ninja (No Income, No Job and Assets) che sono quelli che non hanno stipendio, occupazione o patrimonio, ma a cui pure si concedono prestiti, sebbene privi di alcuna garanzia (ovviamente per tanto favore pagheranno tassi d’interesse più elevati, comunque anch’essi a calare). Ma non c’è rischio per le banche a concedere tanto credito senza copertura? Niente affatto se questi mutui, anche i peggiori che sono detti subprime, possono venire “cartolarizzati”, ossia trasformati in titoli commerciabili sul mercato. Ma chi si azzarderà mai a comprarli? Così come si presentano, nessuno. Ma essi possono venire nascosti, insieme ad altri titoli più sicuri ma con tasso d’interesse più basso, dentro obbligazioni collaterali di debito (CDO, detti anche “pacchetti-salsiccia”) che, proprio per la presenza di quei titoli-spazzatura, finiscono per offrire rendimenti più conveniente, ad esempio, dei titoli di stato.
Per nasconderli definitivamente intervengono quindi le agenzie di rating che istituzionalmente hanno il compito di valutare i titoli presenti sul mercato misurandone la sicurezza mediante indici di qualità (AAA per quelli più sicuri). Le valutazioni vengono fatte da esperti finanziari, ma siccome per questo servizio le agenzie di rating sono pagate proprio dalle banche che emettono i titoli, esse finiscono per favorire i propri “datori di lavoro” assegnando la qualifica AAA anche a quei CDO con dentro i mutui-spazzatura. I quali, ben nascosti nei pacchetti-salsiccia e sopravvalutati dagli indici di rating, prendono a circolare sfacciatamente per il mondo. Tutto congiura a renderli apprezzabili quanti altri mai perché capaci di assicurare interessi più alti, dipendendo da debitori ad alto rischio, ma presentandosi come più che sicuri perché favoriti della “tripla A”. Si ipotizza che, spalmandosi su di una platea tanto vasta di risparmiatori, nel caso di una singola insolvenza il danno per il mercato risulti insignificante. E su questi “miracolosi” titoli di credito proliferano i contratti derivati, nati dalla fantasia degli investitori professionali, per far sì che tutti, ma proprio tutti, ci guadagnino dall’indebitamento crescente delle famiglie americane.
2. Gli anni dal 2002 al 2006 sono stati una pacchia per i consumatori USA (che nel 2004, per riconoscenza, hanno rieletto Bush senza necessità di brogli come accaduto nel 2000). Ma lo sforzo finanziario è stato imponente se tra 2000 e 2006 si sono fatte indebitare le famiglie per 18.200 miliardi di dollari allo scopo di produrre appena 3.800 miliardi di dollari di PIL. Era tuttavia una pacchia drogata dal “credito facile” che poteva durare solo se i tassi d’interesse avessero continuato a diminuire. Ma questo avrebbe richiesto che la guerra irakena si chiudesse in fretta, consentendo gli Stati Uniti di coprire la “bolla creditizia” con i proventi della “missione compiuta”.
Ciò però non è stato. Dal 2003 L’Irak si è trasformato in un “pantano” che ingoia militari e soprattutto risorse finanziarie: finora 3000 miliardi di dollari secondo le stime del premio Nobel Joseph Stiglitz, quando invece si era affermato che non si sarebbero superati i 50 miliardi. A copertura Bush ha dato fondo all’avanzo di bilancio lasciato dalla precedente amministrazione e poi ha stampato dollari a piene mani col risultato che il bilancio federale è finito in rosso (da +1,6% del 2000 a -3,7 del 2006). Pure la spesa militare si è rivelata improduttiva per lo stato di guerriglia permanente che impedisce di far fruttare gli investimenti previsti per la ricostruzione, mentre il petrolio irakeno stenta ad arrivare abbondante sul mercato, dove la domanda internazionale è in sensibile aumento. Risultato? Il prezzo del petrolio è schizzato dai 20 dollari al barile del 2000 a oltre i 100 $/barile di oggi.
Ciononostante l’inflazione negli USA non è aumentata. Il fatto è che i consumi delle famiglie si sono rivolti alle merci straniere importate a man bassa (altra conseguenza della globalizzazione) dalla grande distribuzione commerciale perché più convenienti delle merci nazionali. Così i prezzi sono stati contenuti, ma la bilancia commerciale (la differenza delle esportazioni dalle importazioni) è finita anch’essa in un crescente disavanzo di cui si avvantaggiano i paesi esportatori (come la Cina).
A fronte dei due “deficit gemelli” federale e commerciale, si è dovuto intervenire. Per favorire le esportazioni americane si è svalutato il dollaro (dal cambio 1:1 con l’euro a fine 2002, adesso siamo a più di 1:1,5); per evitare la fuga dei capitali dai titoli in dollari svalutati si è rialzato il tasso di sconto (dall’1% dell’estate 2003 al 5,25% di metà 2007). Ma quest’ultima misura ha travolto i consumatori indebitati: sui mutui contratti a tasso variabile sono cresciute le rate da pagare mentre, riducendosi il valore patrimoniale degli immobili, è venuto allo scoperto il credito eccedente che le banche richiedono di coprire. Chi non è più in grado di pagare il mutuo immobiliare si vede quindi pignorare la casa posta in garanzia oppure è costretto a venderla, mentre i clienti ninja non pagano e basta. Peggio per i loro creditori che, grazie alla circolazione dei CDO “a tripla A”, sono orami sparsi in tutto il mondo. Di fronte al rischio d’insolvenza chi ha titoli cerca di realizzarli non appena possibile in Borsa, mentre le banche, in crisi di liquidità, chiudono i normali canali di finanziamento tra di loro. Nemmeno il pronto intervento di FED e BCE, che hanno prestato loro centinaia di miliardi di dollari ed euro, ha invertito la tendenza.
Allora la FED si è precipitata a ridurre il tasso di sconto fino all’attuale 2%, ma questa volta senza essere seguita dalla BCE che pure aveva rialzato il tasso d’interesse fino al 4% del 2007 e continua a lasciarlo lì. Di conseguenza l’euro si apprezza ancor di più sul dollaro, invogliando i risparmiatori ad abbandonarlo a pro’ della moneta europea (dove porterà questa “guerra monetaria” non è ancora dato a sapere…). Il nuovo governo laburista inglese, invertendo la tradizione delle privatizzazioni inaugurata dalla conservatori e proseguita da Blair, si è affrettato a nazionalizzare una grande banca sull’orlo del fallimento, la Northern Rock, mentre negli USA la Bearn Stearns è stata acquistata dalla JP Morgan, preventivamente finanziata dalla FED.
Ma le aspettative restano al negativo: Addirittura si teme una crisi finanziaria di dimensioni colossali. Una valutazione complessiva di tutto quanto sarebbe a rischio d’insolvenza – non solo i mutui sub-prime ma pure i prime a tasso variabile, non solo le carte di credito ma pure i derivati collegati – porta ad una cifra sui 1000 miliardi di dollari, giusta l’ultima stima del Fondo Monetario Internazionale. E siccome a tutt’oggi sono state effettuate svalutazioni (ossia sono state messe perdite a bilancio) presso i grandi istituti finanziari solo per 200 miliardi, ce ne sarebbero ancora 800 miliardi da far emergere. A meno che non abbia ragione Nouriel Roubini, il più catastrofista tra gli economisti, a parlare di 3000 miliardi di dollari di perdite, che è poi quanto stimato da Stiglitz come il costo delle guerre americane in corso.