Oltre Marcinelle. Quando gli immigrati siamo noi…in Belgio
“Sono stato a Marcinelle, ho parlato con gli ex-minatori, gente che c'era ed è sopravvissuta a quel tragico incidente. E' stato tremendo”. L'agiata compassione di Emanuele Filiberto di Savoia per le 136 vittime italiane di una delle più grandi sciagure sul lavoro (252 morti in totale, l'8 agosto 1956) stride dentro i microfoni di una radio locale belga. Si può anche venire – in Porche Cheyenne – a visitare una volta la miniera e rimanere sinceramente colpiti: ma Marcinelle per gli emigrati italiani in Belgio è solo un episodio di una realtà di decenni di lavoro massacrante ed emarginazione sociale.
Charleroi, Mons, La Louviere, Seraing, Genk. Alienanti città industriali, luoghi ben più che evocativi per le decine di migliaia di protagonisti e discendenti di quell'intenso movimento migratorio che ha fatto parte della storia del nostro Paese nel corso del Novecento. Si calcola che circa 50mila italiani abbiano lasciato la propria terra nell'immediato secondo dopoguerra per donare le proprie braccia alla rinascita industriale dell'Europa prostrata dalla distruzione bellica. Un cuore produttivo le cui arterie sono passate sottoterra, nelle miniere carbonifere del Belgio francofono e fiammingo, della Germania e della Francia per estrarre materie prime necessarie alla ricostruzione e al miracolo economico sostenuto dall'industria pesante. La Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, architrave della pacificazione politica e della cooperazione economica Europee. Cui l'Italia partecipò mettendo sul piatto la risorsa più cospicua di cui disponesse allora: un'enorme massa di forza-lavoro disperata, dunque a basso costo. Manodopera in cambio di carbone.
Una “deportazione”, la definisce Anne Morelli, storica dell'emigrazione italiana all'Università Libera di Bruxelles. Trasferimenti tutt'altro che volontari: spinti dalla mancanza di lavoro e prospettive in patria, gli italiani partivano convinti di restare per pochi anni. Scendevano nelle viscere della terra, come i Belgi ormai non volevano più fare. Si ammalavano di silicosi, morivano in decine di incidenti e crolli. Ma non avevano né protezione sindacale, né tantomeno diritti sociali e politici. Stranieri in Belgio, dimenticati in Italia. Il terrore dell'operaismo comunista spingeva entrambi i governi ad ostracizzarne le istanze. Mentre i salari si rivelavano troppo bassi per pensare di potersene tornare indietro.
“E' vero che in Belgio c'è stata Marcinelle. Ma Marcinelle non è tutto il Belgio. L'emigrazione italiana va oltre. E non è solo storia, ma presente”, dice Stefano Tricoli, presidente del patronato INCA, che da anni tutela i diritti dei lavoratori italiani di fronte alle autorità belghe. Oggi gli italiani in Belgio sono circa 179mila. Siamo arrivati alla terza, ora persino alla quarta generazione di emigrati. I nipoti dei primi partenti sono spesso nati in Belgio: per la mancanza di accordi bilaterali con l'Italia, i giovani sono ancora costretti a scegliere tra la cittadinanza italiana e quella belga. Ovvero, tra il mantenimento della propria identità culturale e della speranza di tornare al paese dei padri, e il godimento dei pieni diritti politici e sociali nel loro Paese di nascita, dove si svolge la loro vita. Una scelta dolorosa, che appare superflua nell'era dell'Unione Europea.
La questione della doppia cittadinanza non è l'unica necessità per tenere vivi i rapporti di questi italiani con l'Italia. La RAI cripta una buona parte dei programmi all'estero: chi non paga il canone non ha diritto ad un posto in prima fila. Ma così non può nemmeno curare l'apprendimento della lingua italiana. Che spesso rimane limitata al dialetto regionale parlato in casa dai nonni e dai genitori, inutilizzabile nel momento di tornare in Italia, magari per cercare lavoro. La regione Emilia-Romagna è tra le poche ad avere attivato un programma di scambio (“Boomerang”) che permetta a giovani corregionali residenti all'estero di trascorrere un'esperienza di lavoro nel tessuto produttivo del territorio di origine. Iniziativa importantissima ma ancora isolata.
“Oggi chiamarsi Salvatore in Belgio non è più una vergogna” dice Teresa, coordinatrice del Centro di Azione Sociale Italiano, che organizza dopo-scuola e corsi formativi per la Comunità italiana. “L'integrazione nella società belga è ormai un risultato acquisito”. Ma nel 2006 il 24% degli italiani in Belgio è disoccupato. Come anche in Germania, gli italiani figurano tra i gruppi nazionali con il peggiore rendimento scolastico, segnalato dalla loro massiccia presenza nelle scuole tecniche e professionali. Nei sistemi nordici, spesso anticamera di lavori scarsamente qualificati, quindi di un reddito e di una posizione sociale irrimediabilmente bassi. Lo status di immigrati indesiderati si sarà spostato sugli extra-comunitari,ma l'immigrazione ha lunghi e pesanti strascichi.
Al contempo, la natura degli italiani all'estero è in costante cambiamento: all'emigrazione tradizionale si sovrappone quella odierna, fatta di studenti, ricercatori, professionisti. “La Comunità italiana in Belgio ha radici profonde, ma non si deve perdere nei ricordi” afferma Davide Pernice, giovane candidato del Partito Democratico in Europa alle ultime elezioni. “Bisogna fare in modo che questa storia continui a camminare sulle gambe dei nostri figli e dei nostri nipoti”. E' certamente necessario tutelare la memoria e diffonderne la conoscenza nelle scuole italiane. “Ma l'Italia deve anche sapere investire sull'enorme risorsa rappresentata dalle sue comunità all'estero: formazione professionale, assistenza nella creazione di imprese, programmi di scambio, accesso all'informazione”.
L'identità italiana non può essere un monumento alla storia, destinato al dimenticatoio. La responsabilità del nostro Paese nei confronti delle sue Comunità non può essere evasa, tanto è l'attaccamento di questa gente alle proprie radici: alla terra, ai simboli, al mantenimento dei costumi e della cultura. Nel 2003 è stato conferito agli italiani all'estero il diritto di voto per le elezioni italiane. Interpretato in modo corretto, questo riconoscimento politico potrebbe cambiare molto.
Charleroi, Mons, La Louviere, Seraing, Genk. Alienanti città industriali, luoghi ben più che evocativi per le decine di migliaia di protagonisti e discendenti di quell'intenso movimento migratorio che ha fatto parte della storia del nostro Paese nel corso del Novecento. Si calcola che circa 50mila italiani abbiano lasciato la propria terra nell'immediato secondo dopoguerra per donare le proprie braccia alla rinascita industriale dell'Europa prostrata dalla distruzione bellica. Un cuore produttivo le cui arterie sono passate sottoterra, nelle miniere carbonifere del Belgio francofono e fiammingo, della Germania e della Francia per estrarre materie prime necessarie alla ricostruzione e al miracolo economico sostenuto dall'industria pesante. La Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, architrave della pacificazione politica e della cooperazione economica Europee. Cui l'Italia partecipò mettendo sul piatto la risorsa più cospicua di cui disponesse allora: un'enorme massa di forza-lavoro disperata, dunque a basso costo. Manodopera in cambio di carbone.
Una “deportazione”, la definisce Anne Morelli, storica dell'emigrazione italiana all'Università Libera di Bruxelles. Trasferimenti tutt'altro che volontari: spinti dalla mancanza di lavoro e prospettive in patria, gli italiani partivano convinti di restare per pochi anni. Scendevano nelle viscere della terra, come i Belgi ormai non volevano più fare. Si ammalavano di silicosi, morivano in decine di incidenti e crolli. Ma non avevano né protezione sindacale, né tantomeno diritti sociali e politici. Stranieri in Belgio, dimenticati in Italia. Il terrore dell'operaismo comunista spingeva entrambi i governi ad ostracizzarne le istanze. Mentre i salari si rivelavano troppo bassi per pensare di potersene tornare indietro.
“E' vero che in Belgio c'è stata Marcinelle. Ma Marcinelle non è tutto il Belgio. L'emigrazione italiana va oltre. E non è solo storia, ma presente”, dice Stefano Tricoli, presidente del patronato INCA, che da anni tutela i diritti dei lavoratori italiani di fronte alle autorità belghe. Oggi gli italiani in Belgio sono circa 179mila. Siamo arrivati alla terza, ora persino alla quarta generazione di emigrati. I nipoti dei primi partenti sono spesso nati in Belgio: per la mancanza di accordi bilaterali con l'Italia, i giovani sono ancora costretti a scegliere tra la cittadinanza italiana e quella belga. Ovvero, tra il mantenimento della propria identità culturale e della speranza di tornare al paese dei padri, e il godimento dei pieni diritti politici e sociali nel loro Paese di nascita, dove si svolge la loro vita. Una scelta dolorosa, che appare superflua nell'era dell'Unione Europea.
La questione della doppia cittadinanza non è l'unica necessità per tenere vivi i rapporti di questi italiani con l'Italia. La RAI cripta una buona parte dei programmi all'estero: chi non paga il canone non ha diritto ad un posto in prima fila. Ma così non può nemmeno curare l'apprendimento della lingua italiana. Che spesso rimane limitata al dialetto regionale parlato in casa dai nonni e dai genitori, inutilizzabile nel momento di tornare in Italia, magari per cercare lavoro. La regione Emilia-Romagna è tra le poche ad avere attivato un programma di scambio (“Boomerang”) che permetta a giovani corregionali residenti all'estero di trascorrere un'esperienza di lavoro nel tessuto produttivo del territorio di origine. Iniziativa importantissima ma ancora isolata.
“Oggi chiamarsi Salvatore in Belgio non è più una vergogna” dice Teresa, coordinatrice del Centro di Azione Sociale Italiano, che organizza dopo-scuola e corsi formativi per la Comunità italiana. “L'integrazione nella società belga è ormai un risultato acquisito”. Ma nel 2006 il 24% degli italiani in Belgio è disoccupato. Come anche in Germania, gli italiani figurano tra i gruppi nazionali con il peggiore rendimento scolastico, segnalato dalla loro massiccia presenza nelle scuole tecniche e professionali. Nei sistemi nordici, spesso anticamera di lavori scarsamente qualificati, quindi di un reddito e di una posizione sociale irrimediabilmente bassi. Lo status di immigrati indesiderati si sarà spostato sugli extra-comunitari,ma l'immigrazione ha lunghi e pesanti strascichi.
Al contempo, la natura degli italiani all'estero è in costante cambiamento: all'emigrazione tradizionale si sovrappone quella odierna, fatta di studenti, ricercatori, professionisti. “La Comunità italiana in Belgio ha radici profonde, ma non si deve perdere nei ricordi” afferma Davide Pernice, giovane candidato del Partito Democratico in Europa alle ultime elezioni. “Bisogna fare in modo che questa storia continui a camminare sulle gambe dei nostri figli e dei nostri nipoti”. E' certamente necessario tutelare la memoria e diffonderne la conoscenza nelle scuole italiane. “Ma l'Italia deve anche sapere investire sull'enorme risorsa rappresentata dalle sue comunità all'estero: formazione professionale, assistenza nella creazione di imprese, programmi di scambio, accesso all'informazione”.
L'identità italiana non può essere un monumento alla storia, destinato al dimenticatoio. La responsabilità del nostro Paese nei confronti delle sue Comunità non può essere evasa, tanto è l'attaccamento di questa gente alle proprie radici: alla terra, ai simboli, al mantenimento dei costumi e della cultura. Nel 2003 è stato conferito agli italiani all'estero il diritto di voto per le elezioni italiane. Interpretato in modo corretto, questo riconoscimento politico potrebbe cambiare molto.