Un albero per aula – 14/02/2006 Un anno a Busia, Busia un anno dopo
Ci penso quasi per caso, sostando nel vialetto fuori all'ICS in un'altra giornata in cui il caldo non lascia scampo, tutto sembra tramutato in sabbia, qualche nuvola in cielo, ma passerà senza lasciar traccia di pioggia e così almeno fino alla fine di febbraio. Ci penso, un anno a Busia, fa quasi venire le vertigini ripensare al primo arrivo. La tentazione di un bilancio è forte, ma vale la pena desistere, visto che tutto sommato credo di essere ancora in una fase di comprensione e qualsiasi giudizio o commento oggi saprebbe di ridicolo tra altri sei mesi. Ma certo, difficile non riflettere sui cambiamenti di questi mesi. Persone cresciute cambiate partite, cose costruite e crollate, luoghi scoperti o dimenticati. Niente bilanci allora, solo qualche riflessione, niente di più che cose pensate in una breve passeggiata.
Persone e passanti
Il numero di persone che conosco a Busia non è assolutamente paragonabile a quello che conosce me. Nei primi tempi tentavo di memorizzare tutte le facce, sentendomi desolato quando mi ritrovavo in una conversazione senza per nulla riconoscere il mio interlocutore. Ora ci ho rinunciato, mi aggrappo ai volti noti, a quelle persone delle quali conosco un po' di storia. Negli altri casi non resta che fingere.
In fondo, per sentirsi a casa in un luogo tanto diverso, bisogna affidarsi ad alcune presenze, alle costanti di una qualsiasi giornata. Non solo i colleghi o gli amici, ma anche altri volti, passanti il cui sguardo capita spesso di incrociare. Qualcosa di più che semplici contorni. Figure sempre uguali, ma che in un anno, ho visto cambiare, crescere, invecchiare.
Il bimbo della signora che cucina nel posto dove faccio colazione ha imparato a camminare, seppure ancora incerto, e vaga liberamente tra la stradina e le botteghe di quest'angolo di Busia, entrando, uscendo e cadendo. Levi ora fa l'ottava classe, si prepara al KCPE, il Kenyan Certificate of Primary Education, che conclude la scuola primaria. Ancora un anno e poi sarà alle superiori. Anche le bambine che giocano nel vialetto sono cresciute, ormai delle ragazzine, che vanno a prendere l'acqua al pozzo. Alcuni dei miei colleghi hanno lasciato l'ICS e Busia, scegliendo, e come dar loro torto, di continuare la loro esperienza professionale a Nairobi, certo più varia rispetto alle giornate tutto sommato uguali di Busia. Altri, arrivati nella ONG dopo di me (ricordo le domande che feci ai loro colloqui di lavoro) ormai ne sono colonne portanti. Un paio degli avventori di Chauma sono invecchiati, li ho rivisti qualche giorno fa e i tratti del viso sono ora ancora più scavati.
Per un anno in qualche modo ho incrociato le loro strade, e non è stato solo questo: sono stati i rapporti con alcune persone, inizialmente solo passanti, a costituire l'essenza della mia vita africana. Sarà così per altri sei mesi. Poi, chissà
Un anno di lavoro
In questi mesi l'ICS ha costruito classi, distribuito medicinali contro i parassiti intestinali, pagato docenti aggiuntivi, ha protetto sorgenti e tenuto corsi di formazione sul come amministrarle. E' ancora presto per capire se tutto questo sia servito a qualcosa. Ogni volta che vado sul campo mi sembra di prendere respiro dopo lunghe apnee. I contatti con la fase di implementazione permettono di capire che le ore in ufficio, la programmazione e il lavoro sui dettagli non sono fini a se stessi.
In altre occasioni ha prevalso invece un senso di scoramento; forse di fronte all'ennesima scena di bambini abbandonati a giocare nella spazzatura o dopo aver assistito a lezioni nelle quali i docenti non fanno altro che scrivere alla lavagna mentre gli studenti trascorrono le ore copiando, probabilmente senza capire. La sensazione che qualsiasi sforzo sia vano, che vi sia qualche legge della natura per la quale nulla può mutare: dura poco, ma ogni tanto prende. In quei momenti tocca rifugiarsi nei casi individuali di successo: il bambino che ha completato l'anno grazie al supporto finanziario o ai medicinali contro i vermi, il comitato che non solo riesce a gestire la sorgente ma addirittura sta tentando di creare un'attività imprenditoriale.
Strane normalità
Sono tante le cose che in questi mesi sono “diventate normali”, in un processo in cui l'abitudine si instaura inevitabile. Me ne accorgo rileggendo con un sorriso alcuni dei racconti scritti lo scorso inverno. Anche nelle relazioni con i colleghi e gli altri locali spero ora di essere un po' meno il mzungu che arriva entusiasta, volenteroso ma è tutto sommato un alieno e un po' di più uno del posto, che guarda le cose senza troppo stupore, non come se ogni giorno riservasse una nuova scoperta.
Un anno in fondo è poco tempo, un periodo che lascia molte delle domande iniziali senza risposta. Ma anche un tempo abbastanza lungo per entrare “dentro” un contesto; in una realtà nella quale i bambini che girano con abiti laceri, le strade illuminate solo dalle stelle, i cumuli di spazzature, le tante lingue usate in una conversazione e l'incomunicabilità tra persone che abitano a pochi chilometri di distanza, le bambine di pochi anni che trasportano taniche d'acqua, la necessità di arrivare con almeno due ore di ritardo quando ti invitano a pranzo, i campi infiniti coltivati e bruciati…in una realtà – dicevo – in cui tutto questo è normale, assolutamente normale.