Claudia Maria Tresso
La traduzione dall'arabo de I viaggi di Ibn Battuta (Einaudi, 2006) sono valsi a Claudia Maria Tresso il più prestigioso riconoscimento arabo nell'ambito della traduzione: il premio Abdullah bin Abdulaziz. Promosso dal sovrano dell'Arabia Saudita, il premio è stato assegnato ex aequo alla Tresso e al marocchino Abdulsalam al-Shaddadi, per la traduzione in francese di Ibn Khaldun nella Ple'iade Gallimard. Docente di lingua araba presso la Facoltà di Lingue dell'Università di Torino, Claudia Maria Tresso è stata la prima occidentale, nonché l'unica donna a fregiarsi del titolo di vincitrice.
I viaggi di Ibn Battuta, narrano la storia di un ragazzo che poco più che ventenne decide di abbandonare il suo paese natale, Tangeri, per affrontare il canonico pellegrinaggio alla Mecca. Ci sono uomini, tuttavia, a cui il fato ha riservato un insolito destino: uomini animati da un'ancestrale attrazione verso l'ignoto, guidati da un'inspiegabile pulsione all'indeterminatezza, uomini destinati a passare alla storia per aver fatto del mondo intero la loro dimora. Uno di questo uomini si chiamava, Abu Abd Allah Muhammad Ibn Battuta e il suo viaggio, iniziato il 14 giugno 1325, durò all'incirca 28 anni.
Ibn Battuta, percorse 120mila chilometri, attraversò l'India, la Turchia, toccò l'Africa e probabilmente giunse sino in Cina. Appartenente ad una famiglia di giuristi di origini berbere, lasciò Tangeri in sella al suo cavallo, da solo e con pochissimo denaro, fiducioso in quella rete di istituzioni che l'Islam prevedeva a favore dei viaggiatori. Affascinato dai paesaggi, dalle diverse culture, dalle diverse tradizioni, ma sopra ogni cosa, affascinato dagli uomini: mongoli, turchi, berberi, arabi, persiani, indiani. Miriadi di popolazioni appartenenti ad un unico mondo, in cui Ibn Battuta si muoveva con estrema facilità, perché era il suo mondo, il mondo dell'Islam. I
nevitabile il paragone con un altro grande viaggiatore, a lui poco precedente: Marco Polo. Al pari di messer Polo, che dettò le memorie del suo viaggio a Rustichello da Pisa, Ibn Battuta, non scrisse la sua storia in prima persona, ma la affidò ad un letterato della corte di Fes, in Marocco, perché come il viaggiatore veneziano non fu mai uno scrittore, bensì un grande narratore. Se il soggiorno di Marco Polo in Cina è una certezza, quello di Ibn Battuta è solo un'ipotesi, tuttavia se si dovesse dimostrare veritiera, vorrebbe dire che entrambe gli uomini soggiornarono nella Cina della dinastia mongola degli Yuan, particolarmente favorevole agli stranieri. Simili inoltre gli itinerari, e certamente paragonabile la curiosità che ne animò gli animi.
I viaggi di Ibn Battuta, a lungo dimenticati dalla cultura islamica, riemersero dall'oblio solo nella seconda metà dell'800, quando a Parigi uscì un'opera in quattro volumi, basata su dei manoscritti sottratti agli algerini durante l'occupazione francese e depositati nella Biblioteca Nazionale. Su questa stessa versione, realizzata da Sanguinetti e Defremery, si è basata la traduzione dall'arabo di Claudia Maria Tresso. Traduzione che a lei ha fatto guadagnare il premio Abdullah bin Abdulaziz e a noi ha finalmente restituito le memorie di uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi.
I viaggi di Ibn Battuta, narrano la storia di un ragazzo che poco più che ventenne decide di abbandonare il suo paese natale, Tangeri, per affrontare il canonico pellegrinaggio alla Mecca. Ci sono uomini, tuttavia, a cui il fato ha riservato un insolito destino: uomini animati da un'ancestrale attrazione verso l'ignoto, guidati da un'inspiegabile pulsione all'indeterminatezza, uomini destinati a passare alla storia per aver fatto del mondo intero la loro dimora. Uno di questo uomini si chiamava, Abu Abd Allah Muhammad Ibn Battuta e il suo viaggio, iniziato il 14 giugno 1325, durò all'incirca 28 anni.
Ibn Battuta, percorse 120mila chilometri, attraversò l'India, la Turchia, toccò l'Africa e probabilmente giunse sino in Cina. Appartenente ad una famiglia di giuristi di origini berbere, lasciò Tangeri in sella al suo cavallo, da solo e con pochissimo denaro, fiducioso in quella rete di istituzioni che l'Islam prevedeva a favore dei viaggiatori. Affascinato dai paesaggi, dalle diverse culture, dalle diverse tradizioni, ma sopra ogni cosa, affascinato dagli uomini: mongoli, turchi, berberi, arabi, persiani, indiani. Miriadi di popolazioni appartenenti ad un unico mondo, in cui Ibn Battuta si muoveva con estrema facilità, perché era il suo mondo, il mondo dell'Islam. I
nevitabile il paragone con un altro grande viaggiatore, a lui poco precedente: Marco Polo. Al pari di messer Polo, che dettò le memorie del suo viaggio a Rustichello da Pisa, Ibn Battuta, non scrisse la sua storia in prima persona, ma la affidò ad un letterato della corte di Fes, in Marocco, perché come il viaggiatore veneziano non fu mai uno scrittore, bensì un grande narratore. Se il soggiorno di Marco Polo in Cina è una certezza, quello di Ibn Battuta è solo un'ipotesi, tuttavia se si dovesse dimostrare veritiera, vorrebbe dire che entrambe gli uomini soggiornarono nella Cina della dinastia mongola degli Yuan, particolarmente favorevole agli stranieri. Simili inoltre gli itinerari, e certamente paragonabile la curiosità che ne animò gli animi.
I viaggi di Ibn Battuta, a lungo dimenticati dalla cultura islamica, riemersero dall'oblio solo nella seconda metà dell'800, quando a Parigi uscì un'opera in quattro volumi, basata su dei manoscritti sottratti agli algerini durante l'occupazione francese e depositati nella Biblioteca Nazionale. Su questa stessa versione, realizzata da Sanguinetti e Defremery, si è basata la traduzione dall'arabo di Claudia Maria Tresso. Traduzione che a lei ha fatto guadagnare il premio Abdullah bin Abdulaziz e a noi ha finalmente restituito le memorie di uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi.