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Scritto da nel Il Mondo nel Pallone, Numero 33 - 16 Febbraio 2008 | 0 commenti

Il secondo re e il terzo tempo

L'immagine delle carte da giuoco è una di quelle che più delle altre rimane impressa, fin da bambini, perché quando si gioca è bene ricordare le carte già uscite e quelle ancora in mano agli altri contendenti.

Il terzo tempo, invece, è quella pratica che nasce concretamente nel mondo del rugby unendo i giocatori nel trascorrere insieme la serata successiva ad una partita in reciproca compagnia. Il calcio italiano adesso lo ha scimmiottato, imponendo a bizzosi calciatori di stringersi la mano a fine gara in modo da far vedere a tutti i tifosi (violenti per natura, questo si sa) che l'uomo può nobilitarsi nel confronto e nel rispetto. Nulla importa se poi succede che sia l'arbitro a ritenere di sottrarsi per manifesto disagio personale.

Il calcio italiano, e non per colpa dell'arbitro Farina, si sente a disagio con il terzo tempo. Preferisce sbranarsi alla televisione, guardarsi in cagnesco e rinfacciarsi le fischiate per anni e anni.

La politica italiana, anch'essa, non differisce di una virgola. Non appena l'odore del sangue di Romano Prodi ha aizzato gli animi le bestie si sono scaraventate sull'osso delle istituzioni repubblicane sempre più fragili e abbandonate dai cittadini.

Negli Stati Uniti, invece, la partita tra la donna Hllary e il colored Barack si gioca sul filo del rasoio, a suon di delegati calcolati in modo astruso da Stato a Stato con regole talmente complicate e minuziose che se ci fossero qui in Italia saremmo sempre a fischiare contro l'arbitro e quell'infame regolamento.

Adesso la partita si sta facendo più complessa.

Tuttavia, semplificando, la gente pensa a che succede ai re. Il re è la carta più alta, inequivocabilmente, e può prendere un altro re oppure sparigliare conquistando due differenti carte.

Il signor Q arrivò in città, dopo aver vagato per lande interminabili e desolate, e trovò che la sua fantasia, ritenuta e non da lui solo piuttosto sviluppata, era proprio piccola piccola di fronte alla realtà. Entrò in un bar e li vide, tutti e quattro i protagonisti seduti con uno specchio sopra la testa. Giocavano allo scopone scientifico con le carte che si intravedevano tra i luccichii del vetro, mentre le persone e gli spettatori si affollavano intorno schiamazzando in silenzio. Gli schermi mostravano la partita in mondovisione.

In buon ordine l'infinito del signor Q si ritirò nel piccolo corpicino e la sua testa si fermò: era l'ora degli altri.

Il primo re uscì subito. Lo giocò il primo di mano, con il petto gonfio e lo sguardo fiero. Si sarebbe quasi detto che ne avesse quattro, di re. Un brusio trasalì in mezzo alla folla che cliccando forsennatamente sul comando del televoto avrebbe già voluto assegnargli la vittoria.

Ma gli altri giocatori non parvero mollare: chi ce lo aveva, il secondo re, sarebbe stato disposto a stringere la mano durante il terzo tempo.

La partita si interruppe quando dal petto gonfio si librarono nell'aria le parole di trionfo di chi pareva avere già la vittoria in pugno.

Sui teleschermi, come quando ai tempi dei Romani sulla biga dell'imperatore vittorioso di ritorno dalla guerra gli veniva ricordato che sarebbe dovuto morire anche lui, apparve l'immagine di un campo verde e di un pallone ovale che negli ultimi secondi della partita consegnava alla polvere il record dei Patrioti imbattuti ed alla gioia infantile della secchiata gelata sulle spalle dell'allenatore capo dei newyorkesi la vittoria dei Giganti.

Sorpresa la folla si sedette di nuovo al proprio posto. The Show must go on. Il signor Q, incuriosito, stette a guardare.

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