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Scritto da nel Numero 26 - 16 Ottobre 2007, Viaggi | 0 commenti

Un albero per aula – 13/05/2005

Rwanda: un paese che, come tanti altri, é solo un buco nero; un titolo di giornale di qualche anno fa. Una sensazione e non un luogo del quale posso avere una cognizione precisa. Una sensazione alla quale sono in grado di associare solo confusi ricordi e un intenso spettacolo teatrale reggiano di qualche mese fa. Strane parole: Hutu, Tutsi… e un termine “genocidio” – un'eco tra la Lonely Planet e i racconti di chi c'è stato – che riporta al presente immagini che ho sempre considerato appartenere soltanto al passato, ai libri di storia, ai film, alle ricerche di mia madre.
Il viaggio comincia alle quattro di una notte umida, al confine tra Kenya e Uganda, attendendo un autobus che, via Kampala, ci conduce fino a Kigali, meta raggiunta la sera successiva. Le strade del Rwanda sono bellissime, almeno confrontandole con quelle del Kenya. La capitale è il centro di una rete di asfalto di una densità insolita per queste regioni: frutto degli enormi aiuti affluiti nel paese dopo il '94; frutto del rimorso di coscienza dell'Occidente. E il primo contatto con il Rwanda lo abbiamo proprio in autobus con una ragazza sorridente che ci insegna a dire “Come va?” in Kynarwanda, di fatto l'unica lingua parlata nel paese (un'universalità che ha poco a che fare con le decine di lingue parlate in Kenya o Uganda). Ci racconta di come Kigali sia sicura, anche di notte, e di come la sua gente sia ospitale. Ma io nel frattempo non riesco fare a meno di chiedermi: ma sarà Hutu o Tutsi?

E Kigali è veramente tranquilla, o almeno è quello che speriamo mentre cerchiamo un taxi per andare al ristorante in un'oscura strada vicino all'albergo. Speranza comunque non disattesa. Poche luci illuminano le 'mille' colline, simbolo della città, svelandoci solo in minima parte i paesaggi, chiari solo alla luce dell'indomani. I boda-boda qui non esistono; le biciclette sono sostituite dai piki-piki, moto a due posti e un casco ( per il conducente) che scorrazzano per la città e che ci portano su e giù in corse bellissime (e piuttosto rischiose).

Il memoriale del genocidio è in cima a una delle tante colline, nel luogo che accoglie una delle fosse comuni. Un luogo di testimonianza, ma non adatto a trovare delle risposte. Dai pannelli – visti alla luce della fedele torcia dato che la luce salta nel bel mezzo della visita e il generatore oggi è rotto- sembra emergere una spiegazione: l'odio tra le due etnie (che poi in realtà non sono tali) nasce dal fatto che i Tutsi (10% della popolazione) furono utilizzati dai bianchi per governare il paese, generando la rivalsa degli Hutu una volta conquistata l'indipendenza. Questo il messaggio che emerge dal memoriale. Ma basta a spiegare l'assassinio di amici, colleghi di sempre, vicini di casa? Non lo so; forse. Mi sfugge però la ragione di quel salto, di quella rottura, di un delirio che spinge a negare la natura umana della persone martoriate dal proprio panga (machete). Il memoriale non dà risposte, appunto. Ma riporta al presente immagini comunque recenti. La via del ritorno in centro è tutto un immaginare gli stessi luoghi undici anni prima, i cadaveri per le strade, i roghi sulle colline, le voci della radio che incitano al massacro, si sovrappongono le immagini di Hotel Rwanda, visto qualche notte prima. E gli occhi del mio vicino di matatu sono quelli di un carnefice o di un superstite?

Il mio compleanno lo trascorro correndo. Per una strana coincidenza siamo a Kigali nel giorno in cui si corre la Prima Maratona della Pace. E la notizia la apprendiamo in maniera ancora più fortuita, a Katuna – frontiera tra Uganda e Rwanda- dove Owen rincontra per caso John, un tipo conosciuto un anno prima ad un altro confine (tra Kenya e Tanzania) che si rivela essere l'allenatore di un corridore tanzaniano, invitato alla gara. Che poi maratona per me è un po' un'esagerazione. Io corro la cinque chilometri nella gara ridotta insieme a vecchi e bambini che – in maniera piuttosto fastidiosa e irrispettosa – mi superano in continuazione. E la pace non sta tanto nella bandiere o nell'augurio del primo ministro alla partenza, ma nelle scarpette, rosa, distribuite dagli organizzatori (e ritirate all'arrivo) per ridurre il numero di corridori a piedi nudi. Scarpette che non sono bastate per tutti. I cinque lunghissimi chilometri si snodano nella periferia di Kigali, gremita di persone che incitano – e tanti mzungu!!, tanto per cambiare 'uomo bianco' si dice allo stesso modo in Kiswahili, Kynarwanda, Kijaluo…E poi mentre aspettiamo che finiscano quelli della maratona seria, ci godiamo le danze (le famose danze africane, finalmente viste dopo mesi…) locali e del Burundi. L'allievo di John arriva terzo, con uno stile impeccabile che sembra ne abbia ancora per almeno altri 42 chilometri…John ci dice con orgoglio che, la prossima estate, vorrebbe portarlo in Europa per le gare di corsa campestre…

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