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Scritto da nel Numero 24 - 16 Settembre 2007, Viaggi | 0 commenti

Un albero per aula – 21/04/2005

Namboboto è una delle tante scuole nelle zone rurali di Busia. Da lontano si assomigliano un po' tutte: edifici bassi, un'aula per ogni classe – non importa quanti siano gli studenti – un albero (che a volte funge anch'esso da aula) e, sempre, un campo di calcio, palestra all'aperto in terra con rare chiazze d'erba. Anche a me capita di visitare e dimenticare presto – forse è realmente inevitabile – e allora provo a ricordare un elemento, una particolarità da associare ad ogni nome di scuola: l'enorme distributore d'acqua, le pareti azzurre, il campo di calcio in salita, i disegni in gesso fuori della classe…

Le scuole sono spesso l'unico chiaro segnale di vita di questo angolo di Kenya, mi sembrano in molte casi delle oasi. Molte delle campagne sono aride, almeno in questo periodo di transizione tra la lunga stagione secca e la lunga stagione delle piogge: terre arse, sorgenti quasi asciutte. E molti dei villaggi sono all'interno, irraggiungibili per me, che non conosco i sentieri e le direzioni. Così guardo dal finestrino del fuoristrada dell'ICS e spesso posso solo scorgere paesaggi apparentemente vuoti.

E anche oggi, come sempre, mi meraviglio di come da questo vuoto emergano decine e decine di scuole, e centinaia di bambini in ognuna di esse. I presidi delle scuole ci accolgono; e quando domando loro il numero di alunni (“wanafunzi” in Kiswahili) la risposta mi lascia spesso sorpreso: 600, 700, 900. Io mi guardo intorno e vedo l'edificio circondato dal nulla e mi chiedo da dove possano venire tutti questi bambini, che con le loro divise dai colori accesi colorano il paesaggio. Lo capisco solo quando, allo scoccare della pausa pranzo (un'ora e mezza di intervallo prima di ritornare in classe) vedo gli studenti uscire dalle classi e cominciare a correre per raggiungere le case e mangiare. E comprendo che le scuole non sono troppe, ma troppo poche, come i docenti (“walimu”), le aule, i fondi e le case sono lontane, e per arrivarci e tornare in tempo bisogna correre.

La percezione dei limiti delle risorse di cui queste scuole dispongono è evidente, quasi sempre, dalla prima occhiata alle strutture, e si palesa nella classi all'aperto o nei muri in fango.

In genere la prima sensazione è confermata dal caloroso benvenuto di ogni preside (“mwalimu mkuu”), un'accoglienza nella quale stento ancora a distinguere tra il ringraziamento per ciò che abbiamo già fatto e la speranza insistente di altri interventi. In ogni caso una conferma che quello che facciamo serve a qualcosa, ma che è sempre troppo poco.

Tuttavia in questo contesto di risorse limitate si tengono lezioni e collegi docenti, si svolgono esami che mi paiono severissimi, si riuniscono comitati di genitori, si formano degli alunni: si propone insomma un modello di comunità le cui dinamiche non sono troppo diverse da quelle delle scuole italiane.

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