Cuba: verso il “post-castrismo”?
Esattamente un anno fa – il 31 luglio 2006 – Fidel Castro veniva ricoverato in ospedale in gravi condizioni. Iniziava un processo di transizione temporanea dei poteri di governo su Cuba a favore del fratello, Raul Castro, in attesa del ritorno in salute del lìder maximo. Non pochi hanno allora sperato che fosse venuto il momento di dichiarare l'inizio della fine per il regime castrista: privato della figura carismatica dell'ex-guerrigliero, il sistema di potere avrebbe inevitabilmente mostrato tutte le sue inefficienze e contraddizioni, conducendo così prima alla sua delegittimazione popolare e poi al crollo, infine alla transizione democratica.
Difficile affermare che tutto ciò si sia effettivamente realizzato. L'inedita assenza di Fidel Castro dai media locali ed internazionali per lunghi periodi può suffragare le ipotesi intorno alla serietà della sua malattia. Ma che si stia assistendo ad un processo di cambiamento di regime appare molto più dubbio.
Certamente non si è allentata la presa governativa sul controllo dell'opinione pubblica e sull'allontanamento o incarceramento dei dissidenti. Si calcola che ci possano essere ancora alcune centinaia di persone ancora detenute nelle carceri cubane per reati politici (attività considerate anti-governative o sovversive). Il governo cubano mantiene saldi i rapporti con gli usuali “amici” non-allineati come il leader populista venezuelano Chavez, prodigo a farsi fotografare dalla stampa internazionale, mentre visita il collega cubano in ospedale e ne assicura l'assoluta salute mentale e il recupero fisico. Al contrario, mantiene il solito atteggiamento sprezzantemente antagonista verso i governi occidentali, sia nei confronti degli Stati Uniti che dell'Unione Europea e dei suoi Stati membri. Inoltre, non si ha notizia di eclatanti mobilitazioni dell'opposizione paragonabili alle iniziative della dissidenza polacca o tedesca contro i rispettivi regimi nel corso degli anni Ottanta.
Tuttavia, la sostanziale fedeltà dell'élite dirigente all'ideale rivoluzionario rischia di essere seriamente minata dalla graduale uscita di scena del suo punto di riferimento personalistico. In altre parole, può darsi l'ipotesi che il passaggio di poteri da Fidel a Raul Castro, pur avendo salvato simbologia, apparenze e personale, costringa il regime ad un cambiamento silenziosamente progressivo in direzione di una maggiore apertura verso l'esterno e flessibilità all'interno. Le ragioni di questo potrebbero essere politiche – il timore che di fronte all'assenza del leader riconosciuto la dissidenza riesca prima o poi a organizzarsi per sfruttare il vuoto di potere -, economiche – l'ampliarsi della ineguaglianze interne tra una parte della popolazione che ha occasione di arricchirsi venendo a contatto con il turismo occidentale o le rimesse dei rifugiati negli Stati Uniti e la maggioranza dei cittadini che vive con capacità drammaticamente limitate -, persino personali – il minore impegno di Raul Castro alla causa dell'alterità di Cuba rispetto al mondo globalizzato.
Nient'altro che supposizioni. In attesa dell'evoluzione delle condizioni interne, sembra utile chiedersi che atteggiamento abbiano assunto i principali Stati nella loro politica nei confronti di Cuba. Possiamo schematicamente disegnare un quadro in cui, nella generale incertezza, si confrontano hard-liners come gli Stati Uniti o l'Inghilterra, e soft-liners, come la Spagna e, in modo più altalenante, l'Italia. I primi rifiutano qualsiasi forma di dialogo o cooperazione con il governo cubano, convinti che contatti ad alto livello con Raul Castro finirebbero solo per fornirgli una sorta di legittimazione internazionale, fatto inaccettabile dal momento che questo non dà alcuna garanzia di futura democratizzazione dell'isola. I secondi ritengono, al contrario, che la scomparsa di Fidel Castro apra la possibilità di instaurare rapporti meno rigidi con il nuovo governo e che sforzi diplomatici in questo senso potrebbero evitare il perdurare dell'isolamento politico ed economico cubano, e i conseguenti rovesci sui già precari livelli di benessere della popolazione locale.
Una posizione, quest'ultima, derivante dalla radicata visione dei maggiori partiti di sinistra dell'Europa continentale, tendenti ad una benigna tolleranza nei confronti del regime cubano, considerato – a torto o a ragione – come un regime non-democratico sui generis. Pur nella consapevolezza delle condizioni di mancanza di libertà politica e di privazioni materiali sull'isola, è tuttora forte il fascino esercitato dal mito rivoluzionario, dalla strenua opposizione alla penetrazione politica ed economica del modello capitalista americano, dalla difesa di un'identità nazionale e culturale – per quanto sostenuta artificialmente – di fronte alle forze livellatrici della globalizzazione.
Siamo, dunque, all'inizio di una nuova fase di post-castrismo a Cuba? Probabilmente sull'isola sono iniziati sommovimenti che potranno evolvere nel tempo e portare a cambiamenti, anche se non necessariamente in senso democratico. Non siamo in grado di giudicare, da qui, né sono pensabili ingerenze dirette nella politica interna di uno Stato sovrano. Nel frattempo però potrebbe darsi l'opportunità sulla terraferma, in Occidente, di pensare alla nostra rappresentazione del mito cubano, e chiederci se lo status quo sia veramente il migliore dei mondi possibili per i cubani stessi, al di là dei sogni proibiti di intellettuali europei e rivoluzionari in spe.
Potremmo persino scoprire che il post-castrismo comincia dall'aggiornamento della riflessione politica dall'altra parte dell'Oceano.