Figli di un economista defunto
Winston Churchill disse che mettendo due economisti in una stanza a discutere si ottengono due opinioni diverse. A meno che uno dei due non sia John Maynard Keynes, nel qualcaso se ne otterrebbero tre.
Mi risulta difficile dare torto allo statista inglese. Chiedete ad un qualsiasi economista, per esempio, di pescare il problema principale che un sistema economico debba affrontare e risolvere.
Scommetto che la risposta suonerà pressapoco così: “Ma guardi, da un lato…ma, dall'altro, non possiamo ignorare che…quindi direi che la risposta, date le ipotesi, è molto probabilmente A. Ma non escludo sia B.”.
Spesso è effettivamente difficile raggiungere una conclusione riguardo problemi complessi. Basta pensare all'economia come ad un immenso cubo di Rubik.
Lo scopo è raggiungere l'equilibrio cromatico delle sei facciate; completiamo una facciata rendendola, diciamo, tutta rossa per poi concentrarci su quella accanto ma spesso ci dimentichiamo che spostare gli altri cubetti ha effetti sul lato rosso in equilibrio.
E siamo daccapo.
Proprio perchè è quasi impossible considerare tutte le possibili esternalità derivanti dai cambiamenti che imponiamo su un settore del sistema economico (ovvero il fatto che lo spostamento di un cubetto solo influisca, nel bene o nel male, sull'equilibrio cromatico generale), è quasi impossibile prestabilire il modus operandi ottimale.
Io che non sono un economista con la e maiuscola, se dovessi scegliere il problema principale su cui concentrare la mia attenzione, direi seccamente la disoccupazione.
In economia, come nel cubo di Rubik, tutto è collegato ma la disoccupazione è più collegata del resto. Vediamo il perchè.
Da un punto di vista scolastico, se un nucleo familiare non dispone di un reddito adeguato, i figli saranno costretti a minimizzare la durata degli studi per dedicarsi ad attività più lucrative nel breve periodo. E nel lungo periodo la scolarizzazione media si abbasa sensibilemente.
Dal lato dei risparmi, una società di disoccupati non accantona i risparmi necessari a finanziare gli investimenti che portano crescita economica e si finisce nella cosiddetta trappola della povertà.
Da un punto di vista di consumi, un disoccupato non acquista beni oltre al livello di sussistenza; alla lunga, non ha quindi senso produrre tutto ciò che non sia pane, fiammiferi o mantelli di pelo. Se manca chi compra, non serve produrre: le aziende devono chiudere e i tassi di disoccupazione peggiorano.
Dal lato inflazionistico, un'economia incapace di creare lavoro deve spesso ricorrere ad alti tassi di inflazione come mezzo per ridurre i propri salari reali e ristabilire equilibrio occupazionale nel breve periodo. Questa strategia ha come effetto di lungo periodo quello di divorare risparmi e, tramite il ruolo delle aspettative, di alzare il tasso di disoccupazione.
Dal lato fiscale, poco lavoro significa poco reddito da lavoro e quindi poche tasse. Poco gettito fiscale, poche risorse per finanziare la spesa pubblica (addio pensioni, ospedali, scuole ed esercito), nè per sostenere investimenti statali (addio autostrade senza buche, treni in orario, wireless di stato e ricerca medica).
Dal lato sociale, infine, la disoccupazione persistente costringe ad integrare il proprio reddito con mezzi alternativi che spesso sfociano in atti di microcriminalità. Nel lungo periodo ciò, oltre ad essere socialmente e politicamente insostenibile, comporta notevoli costi economici e disincentiva gli investimenti (particolarmente quelli stranieri).
Allo stesso modo, il lavoro è uno dei pochi modi che consentono ad un uomo di realizzarsi e di esprimere il proprio modo di essere.
La scarsità di lavoro, quindi, non fa altro che aumentare il rischio di instabilità socio-politiche.
Una caratteristica ricorrente nel paesi poveri è quella di avere tassi di disoccupazione molto elevati. In Sud Africa, ad esempio, la disoccupazione si aggira attorno al 26%.[1] Poco più della metà della popolazione attiva partecipa alla forza lavoro. Guarda caso, la criminalità è altissima, gli indici di scolarizzazione bassi, i risparmi scarsi, i consumi effettivi molto inferiori rispetto a quelli potenziali e i servizi pubblici del tutto inadeguati rispetto ai bisogni reali.
Guardando in casa nostra, nel Mezzogiorno circa un giovane su tre non ha lavoro e un cittadino in età attiva su due o poco partecipa alla forza lavoro. E i problemi non sono molto diversi, con le dovute proporzioni e i distinguo del caso.[2]
Minimizzare la disoccupazione, dicevamo. Gli economisti che dicono in proposito?
Beh loro, che ci crediate o meno, sono divisi.
A molti piace parlare di rigidità dal lato dell'offerta. È la nuova tendenza tra i figli di economisti defunti. Per creare posti di lavoro bisogna fare in modo che gli imprenditori possano assumere e licenziare in santa pace, minimizzare le protezioni dei lavoratori e tenere i salari sotto controllo. Rendere meno costoso educare e aggiornare la propria forza lavoro, deregolamentare orari, turni e condizioni lavorative per meglio competere in un mercato globale. La disoccupazione è alta perchè gli imprenditori non trovano forza lavoro con gli skills necessari. Quante volte avete sentito queste frasi?
Saranno anche vere, a volte. Se parliamo di abbassare il tasso di disoccupazione dal 6% al 5%, allora ci si può pure credere. Ma questi sono problemi da ricchi.
Se parliamo di paesi poveri, la supply side economics soffre di un limite enorme alla base, fondandosi su ipotesi tutte da verificare. Dire che rendere più flessibile il mercato del lavoro crea impiego presuppone l'esistenza di un costante eccesso di domanda che non viene soddisfatto a causa di rigidità varie. Oppure di risparmi potenzialmente trasformabili in consumi correnti.
In presenza di tassi di disoccupazioni prossimi al tasso naturale, ciò è pure verosimile ma in presenza di tassi di senzalavoro in doppiacifra, è difficile credere che il precariato sia la soluzione. Quando un quarto della forza lavoro non sa che fare, è se non altro inverosimile che dall'oggi al domani i senzalavoro possano trovare impego per soddisfare una presunta e massiccia domanda insoddisfatta se solo fosse meno costoso per un imprenditore assumerli.
Come si abbassa il tasso di disoccupazione allora in paesi meno abbienti?
Una ricetta universale non esiste e bisogna senz'altro tenere conto delle situzioni particolari dei diversi paesi. Il Mezzogiorno per esempio, come larga parte dell'Africa, ha un'eccedenza di forza lavoro relativamente a basso costo e poco specializzata. Una situazione tipica delle fasi iniziali dello sviluppo economico di un paese.
Keynesianamente, può darsi che la disoccupazione sia un problema di domanda aggregata e come tale, vada combattuta intervenendo in primo luogo sul lato degli investimenti e dei consumi aggregati.
Disciplina fiscale e inflazione contenuta tengono bassi i tassi di interesse favorendo gli investimenti. I lavoratori non avanzano pretese salariali eccessive e i profitti imprenditoriali aumentano creando lo spazio necessario ad espandere la produzione e quindi a creare lavoro.
Nel frattempo, si tenta di costruire un vantaggio comparativo utilizzando le risorse che si hanno. Ci si concentra inzialmente su attività in grado di assorbire quell'eccesso di forza lavoro (beni esportabili e produzioni labour-intensive). Si inizia dando lavoro alla gente. Si tengono i salari bassi; nel tempo, si aumentano i redditi reali meno degli incrementi di produttività per abbassare i costi del lavoro, rendere più competitivo il proprio tasso di cambio reale e più convenienti i propri prodotti.
Al di là di quello che dicono a sinistra della sinistra, un lavoro pagato pochino è sempre meglio di nessun lavoro. Che ci credano o meno, Babbo Natale non esiste e non si crea un'economia avanzata se non partendo dal basso e con tanti sacrifici.
Chiedetelo alla Cina, alla Malaysia e alla Corea del Sud.
[1] Se consideriamo coloro che non cercano lavoro attivamente ma accetterebbero un impego se venisse offerto loro, la cifra sale a circa il 40%. Questo è il tasso di disoccupazione allargato e secondo diversi studi è l'indicatore più adatto nei paesi a reddito medio e in via di sviluppo.
[2] Per esempio, il Mezzogiorno ha ripiegato sviluppando un vasto settore informale (leggi mercato nero), mentre in Sud Africa lo sviluppo di un mercato del lavoro parallelo a quello ufficiale (pratica peraltro diffusa in molti paesi in via di sviluppo), non è avvenuto a causa delle passate politiche dell'apartheid.