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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 12 - 1 Marzo 2007 | 0 commenti

James Joyce: un'opera al di là della narrazione

L'opera di Joyce, da Chamber Music a Finnegans Wake, passando attraverso il Dedalus e l'Ulysses, per quanto varia e sfaccettata, polimorfa nella sua stessa essenza, rappresenta in realtà un Work in Progress.

Nelle proprie narrazioni l'autore fornisce al lettore, di volta in volta, le chiavi d'accesso per comprendere ciò che verrà, rendendolo in tal senso partecipe del miracolo della creazione artistica. Quel che Michelangelo intendeva mettere a nudo attraverso la pratica de non-finito, è ciò che Joyce rivela nella complessità della sua opera: il genio creativo. Dalla materia informe, sommaria ed essenziale nella sua nudità, alla costruzione in forme sempre più complesse ed elaborate, ci sentiamo spettatori non tanto, o per lo meno non solo, del prodotto artistico nella perfezione della sua finitezza ma complici taciturni della nascita e del suo divenire.

Dal primo romanzo sino a Finnegans Wake, opera con cui si chiuderà l'esperienza artistica dell'irlandese, vi sono temi che rappresentano della costanti, ma dal semplice tratteggio lineare di opere quale Dubliners si passerà ad una rappresentazione sempre più dettagliata del reale e delle sue tipologie. Di fondamentale importanza d'altronde, è rilevare come la compiutezza della rappresentazione avvenga sempre per mezzo di un linguaggio che nel suo distacco quasi cronistico, diventerà uno dei punti di forza e indubbiamente la maggiore peculiarità di James Joyce.

Il desiderio di analisi, scevro da ogni slancio oratorio, la volontà di affidare alla parola, e solo ad essa, nella sua semplicità ed essenzialità l'evocazione del reale, porteranno Joyce ad eliminare man mano dalla sua scrittura tutto ciò che rappresenta struttura meramente espositiva e discorsiva. Il particolarissimo linguaggio dell'Ulysses e ancor più quello di Finnegans Wake (vera opera per iniziati), non è altro che il logico approdo di chi crede che il compito di rappresentare risieda unicamente nella parola, quale elemento individuale che s'innalza al di sopra della struttura sintattica.

Al sentimentalismo si oppone la musicalità, al linguaggio patetico di tanta letteratura del '900, quello freddo e distaccato di un cronista del reale, non a mere formule retoriche ma all'essenza stessa della cose, nel loro significato esistenziale e non contingente, si affida la capacità di scuotere nel profondo l'animo del lettore.

Nell'innovazione linguistica risiede la sua forza, in quel sublime e originalissimo modo di trattare il verbo che tanto inchiostro ha fatto versare ai critici più autorevoli. Tuttavia proprio tale innovazione ha contribuito a creare l'immagine dell'opera Joyciana quale un monumento unico ma inavvicinabile, simile ad un'opera classica alla quale spesso si guarda con timore quasi reverenziale.

Di fatto alcuni passaggi, i più complessi ed ermetici delle opere mature, presuppongono nel lettore una conoscenza ed una universalità di cultura pari a quella dell'autore, indubbiamente difficile da riscontrarsi anche nei lettori più esperti. Tuttavia nelle medesime pagine esistono passi di una tale poeticità, di una tale altezza lirica, per i quali ogni spiegazione sarebbe limitante se non addirittura superflua.

Come Proust nella Recherche, Joyce nella sua opera ci guida alla scoperta di un mondo sconosciuto, il suo mondo: la giovinezza a Dublino, l'esilio volontario, l'inizio di quello straniamento che diventerà assoluto, il tutto superando i limiti della pura narrazione.

In fondo basta saper ascoltare.

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