TFR, solo un primo passo
Se non fossimo rintronati dalle trasmissioni via etere, in questo Paese potremmo guardare le cose senza doverci tappare le orecchie. In Italia sembra che viviamo ogni giorno incantati di fronte al paesaggio del nostro Bel Paese di fianco ad un martello pneumatico, mentre ci sfilano di tasca il portafoglio.
Proviamo per un attimo (non di più) a riflettere su quel che succederà dei nostri soldi, più esattamente di quel dodicesimo circa dello stipendio che ogni anno viene forzosamente destinato al risparmio: l'accantonamento dei Trattamenti di Fine Rapporto (TFR) i cui meccanismi sono stati recentemente modificati. Si tratta di quei soldi che l'azienda iscrive ogni anno in bilancio ed ogni anno rivaluta per riempire il porcellino che i propri dipendenti romperanno per la festa della pensione e che, nel frattempo, assolve al bisogno di liquidità aziendale.
Vediamo per sommi capi che cosa cambia con la riforma e perché essa può rappresentare un passo importante per la modernizzazione del Paese, pur correndo i rischi di aggravare le situazioni di criticità della nostra economia e della nostra società.
Dicevamo: una parte del nostro stipendio viene, per legge, destinata al risparmio. Il risparmio confluisce agli istituti che lo raccolgono (scusate la tautologia ma è proprio in virtù di circuiti che si reggono sull'immateriale che l'economia prospera nella finanza) e che lo investono: si presuppone che tali soldi vengano utilizzati di nuovo dall'economia per generare ricchezza reale (unico fondamento vero e non surreale di un sistema economico esattamente detto). Questa la teoria economica.
Nella pratica il punto primo è che il TFR è di proprietà del lavoratore, il quale lo gestisce per il tramite degli istituti che la legge gli consente. Qui nasce il capitalismo ed un regime democratico e borghese: il sistema (inteso come legge, ordine e quindi denaro) favorisce l'accumulazione capitalista e premia chi dedica ad essa la propria vita, i propri studi, il proprio lavoro. Non che ci sia niente di male, ma come si dice, patti chiari amicizia lunga.
Pertanto la sinistra riformista ambisce a distinguersi dalla destra non per la critica radicale verso le ingiustizie che il sistema propone, che risulta tanto più moraleggiante quanto più non in grado di offrire una proposta all'altezza della protesta, quanto per la bontà dei correttivi che essa è in grado di realizzare esercitando le prerogative del Governo democratico. La parola d'ordine è oggi liberalizzazioni e diritti dei consumatori. Il sottoscritto, per chi non lo sapesse, si trova pienamente d'accordo con questo approccio e pertanto si preoccupa di osservare come effettivamente esso può ben funzionare.
Con questa riforma si spezza il monopolio della gestione dei fondi dei TFR, appannaggio esclusivo delle aziende, consentendo al lavoratore di investirlo in strutture finanziarie (i c.d. fondi pensione) per trasformare parte dei soldi che il lavoratore riceverebbe alla conclusione del rapporto di lavoro in una successiva rendita pensionistica. Tale scelta viene ritenuta positiva per la complessiva struttura economica nazionale: dovrebbe rendere più liquido il mercato finanziario, aumentarne la concorrenza e, con questo, il benessere del cittadino-risparmiatore-consumatore. Questa l'aspirazione di chi crede di riformare il comunismo socialista secondo la visione di Jefferson, all'americana, con potenti leggi Antitrust a imporre la pace sulle praterie del Far West. Pertanto si obbligano le aziende ad incentivare il passaggio ai fondi con un aumento della contribuzione a carico loro.
Il western all'italiana ci insegna che non siamo mica gli americani, noi siamo meglio. E allora perché imitarli? Questa l'opinione della sinistra europea più radicale e chic e della destra più popolare e nazionalista. Qui da noi nel Bel Paese – e chi legge attentamente L'Arengo dovrebbe già saperlo – chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.
Come non vedere il rischio che i nuovi fondi diano il via ad una giostra di commissioni di ricarica del prestito, a nuove bolle speculative che non riversano i propri effetti al di fuori dei nuovi costi di gestione di queste strutture? Che in effetti sono stipendi e lavoro, ma che possono avere effetti perversi di barriera se non si trasformano in minori tassi di interesse e minori costi bancari per le imprese e quindi in una maggiore possibilità di mantenere sotto controllo i prezzi e alto il livello di stabilità sociale e sicurezza economica delle fasce più deboli. Nel mercato energetico stiamo esattamente correndo un rischio del genere.
Per questo la riforma in questione è solo un primo passo.
Occorrerà che non rimanga zoppo, e per fare ciò occorre spostare ricchezza attraverso la legge: perché quelle che in teoria si chiamano asimmetrie informative e in realtà si chiamano truffe. Come tariffe telefoniche truffaldine perché non tengono conto degli inevitabili costi di ricarica possono essere vietate e rimborsate, come l'aggravio della commissione dei prelievi fuori sportello per un clic su una tastiera, come la mancanza di ogni tutela nei confronti dei bisogni più costosi e necessari, dalla casa ed all'auto.
Perché, per esempio, non costringere per legge l'Autorità Garante della Concorrenza di essere banditore dell'asta dei tassi di interesse? O delle tariffe telefoniche? O del diritto effettivo ad avere accesso alle reti ed ai vantaggi dei mercati del gas e dell'elettricità?
E' forse chiedere troppo di avere il menu, chiaro e tondo, delle offerte? Assegnare il compito ad un regolatore di far sapere chi offre che cosa e quanto costa non sarebbe forse un modo di rendere efficiente il lavoro della nostra burocrazia oltre che di avvicinare la politica reale all'empireo della teoria della concorrenza perfetta? Provate a spiegare ai lavoratori il profilo rischio-rendimento e vedrete che coi propri soldi ognuno sa come gira il mondo. Oppure preferiamo continuare a 2 euro alla volta?
Signore e signori, attenzione. Impugnate il telecomando e abbassate pian piano il volume della TV. Prendete carta e penna. E' ora di fare i conti con il proprio TFR.