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Scritto da nel Economia e Politica, Numero 9 - 16 Gennaio 2007 | 0 commenti

Piazzale Baghdad

Correva l'anno 1947, quando Benedetto Croce in un famoso e controverso discorso al parlamento italiano sull'istituzione del Processo di Norimberga sostenne, tra l'altro, che “Un tribunale costituito dai vincitori e non basato su norme preesistenti può solo definirsi strumento di vendetta e non di giustizia”

E' un dato di fatto, e come tale può piacere o meno, ma i processi in cui il vincitore sul campo di battaglia si arroga in seguito la prerogativa del giudizio morale sul vinto, sanciscono in modo inderogabile un imbarbarimento della nozione stessa di diritto, finendo per identificarlo tout-court con la forza e non con quelle norme preesistenti a cui alludeva Croce.

L'ira popolare, o il revanscismo di etnie che storicamente hanno subito violente discriminazioni o “pulizie”, possono legittimamente, o quantomeno comprensibilmente, condurre al tirannicidio: la logica stringente insita nella legge del taglione, trova in questi avvenimenti estremi una giustificazione insindacabile nell'istinto di sopravvivenza.

E' comprensibile e talvolta auspicabile, che una comunità liberatasi dal giogo della dittatura conduca il proprio aguzzino al patibolo, tuttavia una sollevazione popolare resta un avvenimento qualitativamente irriducibile ai processi farseschi istituiti ad hoc da tribunali, dove giudici e carnefici rappresentano le due facce della medesima moneta.

Nella comunità europea e in particolare in Italia, il dibattito si è incentrato sulla pena capitale comminata a Saddam, e non a caso(e forse non a torto) un richiamo storico su Piazzale Loreto da parte del premier irakeno Maliki non si è fatto attendere. Tuttavia è bene precisare come le considerazioni etico-sociali sulla pena di morte rappresentino soltanto la cruna dell'ago, almeno in una vicenda dove, per interessi economici, la politica internazionale ha giocato prepotentemente con l'autodeterminazione di un popolo.

Le nostre comode poltrone, così come i televisori gracchianti non sono il luogo adatto per comprendere o addirittura giudicare le risposte, talvolta cruente, date da uomini con alle spalle un tragico passato: l'eccezionalità di una condizione o i crimini reiterati da dittature ventennali mal si adattano al metro permissivo della magistratura civile. Con l'obesità degli agi e la tranquillità del dopo, considerato come il tempo sia sempre galantuomo, si possono riaprire i libri di storia per rileggere Piazzale Loreto, o riscrivere “Piazzale Baghdad”, ma questi sono tutti esercizi che chiunque abbia sentito parlare, anche soltanto vagamente, del concetto di relativismo, lascia tranquillamente svolgere agli improbabili ospiti di Porta a Porta.

La domanda da porsi per non banalizzare una vicenda che si presta a molteplici chiavi di lettura, non è tanto se in alcuni casi sia lecito giustiziare un uomo, ma piuttosto a chi spetti questo ingrato compito. Se ad esempio, l'impiccagione fosse seguita ad una sommossa popolare, in seno ad una nazione nel pieno possesso della propria sovranità, o se per un boia come Pinochet la giustizia umana non si fosse uniformata a quella divina attendendo quarant'anni, penso francamente che migliaia di curdi e cileni avrebbero soltanto benedetto quella forca.

Se la nostra razionalità di stampo umanistico non si lasciasse distrarre dall'ennesimo cappio, scorgerebbe, celata dal patibolo, un'amara verità: con la lungimiranza politica che li contraddistingue, i grandi burattinai d'oltreoceano, istituendo un “processo” farsesco, sono riusciti a rendere il macellaio sconfitto, un martire.

Dopo Norimberga, Tokyo, Belgrado anche in Iraq è stato tacitamente avvallato il principio distorto per cui i vincitori, ritenendosi moralmente superiori rispetto ai vinti, potessero in qualche modo disporre di questi, giudicandoli con una parvenza di credibilità all'interno di tribunali istituiti ad hoc.

Quella a cui abbiamo assistito non è stata soltanto l'esecuzione di un dittatore sanguinario, ma piuttosto un ulteriore passo verso lo sgretolamento della nozione classica di diritto. A questo proposito non deve stupire l'imbarbarimento che socialmente e legislativamente implica un arretramento di qualche secolo: manicheismo, guerra del bene contro il male, stati canaglia, dio è con noi ed altre proclamazioni farneticanti, tutte coniate nell'ultimo decennio, remano infatti in questa direzione.

Se, come sosteneva Carl von Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica fatta con altri mezzi[1], è innegabile che il nuovo millennio abbia allo stesso tempo sancito, la validità e l'avvallo, forniti dagli Usa a questa massima di stampo hegeliano.

I più attenti, come nota acutamente Massimo Fini, non possono ignorare come l'aggressività statunitense, liberatasi del contrafforte sovietico, abbia subito un preoccupante incremento: 1999 attacco alla Jugoslavia, 2001 attacco all'Afghanistan, 2003 guerra all'Iraq, 2007 attacco alla Somalia, mentre secondo il Sunday Times sono già pronti i piani per attaccare con l'atomica, via Israele, l'Iran. Un' escalation che richiama da vicino quella della Germania negli anni '30.

Fortunatamente la voce dei detrattori di questo modo barbaro di fare politica ha una sua consistenza, avendo potuto unire sotto un unico vessillo intellettuali, editori, politici e personalità facenti capo ad ideologie distinte, talvolta contrastanti: da Vidal a Chomsky, da Fo alla Hack, da Savater e Strada la condanna è stata unanime. A queste voci autorevoli, possiamo unire aritmeticamente quelle di milioni di cittadini, nella speranza che la sordità di un establishment degno al più di dirigere uno zoo, sia dolorosamente perforata da qualche rimorso di coscienza. Anche se francamente e con una punta di pessimismo ne dubito.


[1] Vom Kriege, 1832

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