Alyssa – Parte Seconda
continua dal numero 8
Alyssa non riesce quasi a tenere gli occhi aperti, ormai, e non si chiama nemmeno Alyssa.
Il suo nome è Alessandra, ma in trasmissione le hanno detto che il suo modo di essere donna richiedeva un nome più particolare, proprio come lei.
Il suo modo di essere donna.
L'aveva detto un giovane produttore, la faccia da prete impreziosita da occhiali con la montatura traslucida, spessa e di colore rosso. Maglione con il cavallino, cavallino del colore degli occhiali, occhiali in tinta con le scarpe modello golfista, testa quasi rasata per nascondere la chierica avanzante, oppure per dare quel tocco un po' minimalista e un po' gay, non so, aveva alzato la testa dicendo Alyssa, puoi dire che è il nome con cui ti chiamano i tuoi (molti) amici (di un certo livello). Personaggio costruito. Avanti il prossimo parvenu. Anche per quella sera se l'era guadagnato il suo piatto di Sushi, il giovane produttore.
Non le è mai dispiaciuto, in fondo, quello pseudonimo, soprattutto perché riconosce che quel suono è in effetti singolare come lei, però nessun amico o conoscente l'ha mai chiamata così.
Ora, il suo ex marito ha una convinzione a proposito dei nomi. Una teoria a suo dire confortata dall'esperienza, una specie di ricerca osservativa intergenerazionale. L'assunto dice che chi chiama le persone con diminuitivi derivanti dalle prime lettere del nome proprio ha una probabilità più alta di cercare di fottere detta persona, sia nel senso notturno del termine che in quello sociale. Solamente più alta, magari sarà l'amico più sincero e vicino della tua vita, ma la percentuale pende dalla parte della curva in cui vengono contemplate le cattive intenzioni. Significativamente.
Possibilità difficilmente associabile a quelli che si rivolgono alle persone con appellativi derivanti dalle ultime lettere del nome. Più precisamente, con parole sue, i primi hanno una concezione fortemente egoistica e ludica dell'altro, mentre i secondi percepiscono solidamente la differenziazione, l'individuazione della persona e il conseguente rispetto.
Il suo ex marito non era uno psicologo e queste cose le intuiva solamente, in qualche modo, e alcune erano grosse cazzate.
Ma, volendo portare un esempio, gli amici di Alyssa (Alessandra, quindi) la chiamavano o Ale o Sandra, e molti di quelli che la chiamavano Ale si vestivano sempre troppo bene durante i loro incontri e sorridevano nervosi, e erano di solito amici recenti. Quelli che la chiamavano Sandra erano pochi e più rilassati, li conosceva da una vita e a volte l'avevano tirata fuori dalla merda, o perlomeno le avevano fatto compagnia.
E le sembrava stucchevole, a quest'ora della notte e della sua vita, annotare che l'uomo appena scomparso, Raffa, la chiamava Aly, diminutivo quindi problematico di un nome già falso.
Per dire, Lyssa effettivamente esiste come nome. O Liz.
Alyssa ora sta proprio per addormentarsi, è come sospesa in quegli istanti in cui i sogni entrano nel cervello come tanti invitati già sbronzi ad una festa di carnevale, mettendo confusione tra reale e inventato. Un fragile confine che delimita lucidità e scherzo.
E se guarda per un'ultima volta nel buio rivede le sue ore con quell'uomo e le vede da fuori, un po' come ad una mostra fotografica, una specie di selezione ragionata, fatta di tanti scatti emblematici della propria vita, nei quali cambiano spesso le inquadrature e i volti, ma i soggetti impressi sono sempre gli stessi, cioè brividi, eventi, quasi mai progetti, e errori, e tinte accese, che a volte danno anche un po' nausea.
Ma come ama dire di sé, lei è fatta così, sa cogliere l'attimo perché la vita è una sola. E preferisce tirare avanti con i suoi tanti rimorsi che avere un solo rimpianto, ed è per questo che si trova ancora una volta in una simile situazione, a ripassare le immagini della sua vita guardando nel buio di una camera da letto, con l'odore nel naso di uomini, donne e lenzuola, tutti a loro modo sfatti.
Alyssa spegne gli occhi, non è serena ma ha una specie di soddisfazione addosso, un po' malinconica.
Prova a dormire.
Con quell'unto in bocca, che non va via, e quel pulsare fra le gambe.
FINE