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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 8 - 16 Dicembre 2006 | 0 commenti

Politicamente scorretto

Il 23 novembre 2006 anche Philippe Noiret, uno dei mostri sacri del cinema “italiano”, ha salutato e in punta di piedi, con lo stesso stile che aveva contraddistinto la sua esistenza, ha preso commiato dal grande pubblico. Con inutile pedanteria filologica si potrebbe obbiettare che il signore, francese di nascita e di modi, appartenuto alla creativamente feconda generazione di Michel Piccoli e Trintignant era ha tutti gli effetti transalpino, e che quindi il novero dei “mostri sacri” della commedia all'italiana non può fregiarsi di comprenderlo tra i propri cari estinti. Non sarei tuttavia per innalzare inutile barriere geografico-artistiche nell'ambito in cui le collaborazioni italo-francesi sono state in grado di regalarci alcune delle più belle pagine del cinema targato anni 70/80; basti pensare a pellicole del calibro de La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri, o de Il Vizietto (1980) di Edouard Molinaro, per salutare con favore l'atipico e raffinato sodalizio artistico coi cugini d'oltralpe.

Ma torniamo a Noiret, tralasciando l'epilogo romantico di Nuovo cinema paradiso e del Postino, per incentrare la nostra lettura su un modo di fare cinema, che chi scrive ha amato con giovanile furore: quello dove la paradossalità come cifra artistica, ha saputo tratteggiare con maestria personaggi beffardamente crudeli, ed infinitamente grandi nella loro umana piccolezza.

Se l'indimenticato Oreste del Buono, grande scrittore e grandissimo giornalista, sosteneva non a torto che la banalità è la vera volgarità del nostro parlare quotidiano, i tempi sono probabilmente maturi per salutare con favore la genialità celata da giochi di parole edificati sulle problematiche vette del non-sense.

E forse, se tenessimo debitamente in considerazione quanto ironia e paradosso abbiano rappresentato nella nostra storia almeno a partire dalla Grecia classica, non si renderebbe necessario difendere la presunta villania di Antani o di una supercazzola prematurata dagli attacchi dei nuovi puritani (anche, e soprattutto, quando il beffardo sberleffo è rivolto ad un prete sbigottito che non può non confonderlo che col delirio del morituro). In questo “scorcio” di Amici miei è condensata parte della presenza scenica e dell'innata finezza di Philippe Noiret, qui, magistralmente diretto da un Monicelli in stato di grazia. Servendosi mirabilmente dell'ultima burla di un personaggio agonizzante, il regista toscano sembra esplicitare la propria concezione esistenziale: se la vita è stata vissuta alla stregua di una gioiosa commedia, con socratico coraggio deve esserla anche nell'ultimo atto, alla chiusura del sipario. Forse, è proprio questo istante supremo che con un pizzico d'ironia può conferire retrospettivamente l'immortalità, a chi, come un attore, ha saputo danzare sul palcoscenico dell'esistenza.

La cattiveria, tessuta come una doppia pelle sui migliori personaggi di Monicelli, Risi e Ferreri, è sempre beffarda e tagliente, a volte crudele, ma mai banale. Il suicidio gastronomico che anima La grande abbuffata, le risate malcelate ai funerali di Noiret in Amici miei, o un giovanissimo Tognazzi che seduce la donna dell'amico nei Mostri, sono altrettanti esempi da cui emana l'amaro sorriso della tragicommedia, in una certa misura sempre riconducibile ad una dolorosa consapevolezza esistenziale. Se la vita rappresenta una tragedia, e questo è, ad esempio, il messaggio sotteso alla grande abbuffata, occorre tutta la genialità e la grandezza di cui l'uomo dispone per provare a renderla una tollerabile mis en scène. In questa coraggiosa prospettiva, laica ed immanente, il divino non trova spazio: vengono santificati gli amici e la risata, unica compagna dalla voce melodiosa a cui consacrare le proprie pasquinate.

Considerazioni simili possono tranquillamente essere estese anche alla presunta volgarità che, secondo i detrattori, animerebbe alcune tra le migliori pellicole italiane, a cavallo tra gli anni 70 ed 80. Tuttavia è quantomeno pressappochista , catalogare come volgarità le risposte, talvolta eccessive, al grigiore di giornate impiegatizie sempre identiche nella loro ripetitività: L'iridescente istantanea che ci regalano Monicelli e Ferreri, è quella di una voglia frustrata d'evasione, maturata nei confronti di una società dove l'unica regola sembra essere la noia. Le zingarate, assumono il significato eversivo di un godereccio rifiuto del precetto, così come l'abbuffata, moderno baccanale, è l'estrema e paradossale risposta di coloro, che pur rifiutando ontologicamente le regole del gioco, vengono schiacciati da un ingranaggio infernale ed ingovernabile.

Gloria ai caduti, e dunque giusto merito a Philippe Noiret e Ugo Tognazzi, due icone del cinema d'autore: personaggi indimenticati che in vita hanno saputo maneggiare superbamente l'arma dell'ironia, conducendo una personale e onorevole guerra alla banalità.

I bonari cattivi salutano e se ne vanno, lasciandoci in dote un modo di fare cinema di cui sentiremo la mancanza.

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