L'insostenibile leggerezza dell'anti-proibizionismo
“Se si inizia a transigere su una norma etica o giuridica, non si sa dove si va a finire o meglio lo si sa benissimo: si approda a un supermarket morale in cui ogni comportamento è optional e ciascuno sceglie quello che gli pare e gli fa comodo, magari convinto di combattere un'elevata battaglia, giacché tutti noi abbiamo la tentazione di nobilitare la nostra prosaica esistenza col pathos di grandi ideali e con la gratificante convinzione di essere perseguitati per questa battaglia anche quando non lo siamo affatto, per sentirci — pur nella più innocua banalità quotidiana — dei piccoli Galilei minacciati dall'Inquisizione”.
Claudio Magris, Corriere della Sera del 10 / 12 / 2006
Drogarsi è ben lontano dall' essere un diritto dell'individuo. Al contrario, per le sue conseguenze deleterie sulla salute psichica e corporea di chi ne fa uso è un dovere dell' Autorità pubblica tenerne lontano i suoi cittadini. La stessa autorità pubblica, lo Stato, ha soprattutto il dovere di promuovere una moralità sociale collettiva, prendendo esplicitamente posizione con tutti i suoi mezzi – educativi, così come legali – contro quei comportamenti che hanno effetti nocivi sui singoli e potenziali ripercussioni sulla sicurezza della società stessa. Senza contare il contributo economico che il mercato della droga fornisce in maniera sistematica alle organizzazioni criminali, che ne utilizzano i proventi per ben altri scopi.
L'argomento più banale sta tutto qui, non perdo altro tempo:
“[...] già l'assunzione di piccole dosi di Cannabis provoca danni fisiologici e psicologici, espone con buona probabilità al rischio di intraprendere la strada distruttiva delle droghe “pesanti”, e inoltre mette a repentaglio la sicurezza e l'incolumità degli altri, perché i consumatori di queste sostanze, in preda a confusione mentale, delirio ed eccitazione possono più facilmente diventare aggressivi e violenti, provocare incidenti stradali, ecc. Tale assunzione, dunque, è immorale, perché ogni uomo é moralmente tenuto a preservare la propria salute e l'incolumità altrui” (da www.paginecattoliche.it). Passiamo adesso alle cose serie.
Nella società moderna pare si stia producendo una sorta di consenso silenzioso, inerte all'uso smodato di ogni tipo di droga – dagli steroidi agli anti-depressivi, dalla nicotina al viagra. Gli effetti sulla salute sono risaputi, nonostante qualche medico o rivista tenda a minimizzare strumentalmente ai propri fini, con la scusa di operare una comparazione tra mali, concludendo che ce ne siano sempre di minori. Quindi di trascurabili. La cannabis non fa eccezione. Una conseguenza maligna è una conseguenza maligna. Punto. Si può obiettare che allora bisognerebbe vivere in una campana di vetro, perché tra cellulari, smog, polonio e fumi passivi di vario genere la tutela della propria salute è un po' come la ricerca dell'isola che non c'è. Infatti non è questo il punto.
Lo scorso numero di questa rivista ha parlato in modo profondo del rapporto quasi intrinseco tra Occidente e nichilismo. Non vi è forse nulla di più degradante per la dignità umana della prostrazione fisica e mentale indotta dalla droga? Della comoda fuga da una modernità post-industriale di certo alienante ma in cui non si è capaci di combattere, in cui non si è in grado di cogliere alcun punto fermo, alcun valore di fondo in cui credere? In cui non si sa valorizzare lo scopo del proprio stesso agire? Che il mondo moderno sia un gigantesco produttore di solitudine esistenziale è risaputo, ma è così per tutti gli uomini. La vittoria della vita su di un mero costrutto della vita – il denaro, il possesso, la brama di gloria… – non passa attraverso l' egoistico isolamento per tramite della droga. Anzi, questa rappresenta proprio la resa della vita stessa.
La cannabis in questo non è certo meno innocua. Al di là della possibilità di escalation verso ben altri lidi artificiali, la pretesa leggerezza dell' erba nasconde insidie ben più graffianti. In primo luogo, ha un suo tipo di dipendenza. Non sarà quello dell' eroina ma è una dipendenza. Genera apatia, nullafacenza, lentezza di riflessi, stupidità. Il classico fattone full- time non è meno un perdente dell' eroinomane, o dell'alcolista, se preferite. E poi genera quel tipo di comportamento deviato, che tende all' indifferenza nei confronti della collettività, alla ricerca di spazi esterni dal controllo sociale, e quindi dalla legge statale. La droga leggera è mezzo di ribellione strisciante. Di mancato rispetto per le regole.
Per questo lo Stato ha il dovere, per la sua stessa natura, di combattere la diffusione e l'uso di ogni tipo di droga. Senza alcuna distinzione, poiché è il principio che conta ben più del contenuto delle proibizioni stesse: l' Autorità pubblica, come espressione della società organicamente intesa, non può tollerare la devianza di un suo componente dalla società medesima. Assumerebbe la valenza di un permesso a sottrarsi alle leggi emanate dal popolo per il popolo stesso. Che è quello che lo Stato rappresenta. Può un' Istituzione diventare quel supermarket morale di cui persino Magris si rende conto? Questa è la domanda corretta. Ma questa è pure la fondamentale ipocrisia di chi pone barriere tra droghe leggere e pesanti, e che fa finta di non accorgersi dell' importanza collettiva del divieto, in nome di un individualismo malsicuro. Di un' improvvisa vampata di liberalismo, curiosamente negato in tutte le altre sfere.
Di qui la proibizione deve essere accompagnata dal recupero dell'individuo, dal suo reinserimento nella società. Cannabis, eroina, sedativi o alcool che siano. In questo modo lo Stato si prende veramente cura, in modo univoco, della morale che gli sottintende, dell'individuo che rappresenta e della società che tutela.
Ci sarebbe forse molto altro, ma mi fermo qui. Non vorrei darvi l'impressione di essere troppo d'accordo con quello che ho appena scritto.