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Scritto da nel Numero 4 - 16 Ottobre 2006, Tempo e spazio liberi | 0 commenti

Appuntamento a Poitiers

Quando Andrea mi telefonò erano circa le sei di sera. Ero ancora in facoltà sopra un libro di storia medievale ed i “mori”, la Spagna alle loro spalle, non si decidevano ancora ad attaccare. Sapevo che sarebbero giunti di lì a poco alle porte di Parigi ma per due ragioni, molto diverse tra loro, sapevo anche che non sarebbe accaduto quella sera. La prima, di certo la più importante per i mori, era che, contrariamente alla propria indole, quel popolo tanto fiero sembrava indugiare, quasi incredulo di fronte alla debolezza di quello stato che doveva pur sempre rappresentare il cuore pulsante dell'Europa, e che si apprestava a divenire anche il difensore della fede che la animava. La seconda, la più importante per me questa volta, era che nel giro di cinque minuti avrei chiuso il libro, congelando quella pagina di storia che tanto mi affascinava.

Dovevo fare infatti un paio di giri, mangiare al volo un boccone, lasciare il portatile a casa; il tutto entro le otto e mezza al massimo. Questo perché quel pazzo mi aveva detto “mi raccomando, vieni alle nove meno un po' all'angolo tra via Marsala e vicolo Luretta! Quello di stasera è spettacolare! Ci abbiamo lavorato per mesi e te lo devi vedere assolutamente! Mi raccomando…” e giù la chiamata.

Telefonate del genere Andrea me le faceva almeno una volta al mese e avevano sempre successo. Mi invitava alle sue rappresentazioni di teatro itinerante sempre in quella maniera e io non tardavo mai di un minuto. Mi aveva chiesto un sacco di volte se volevo partecipare, dicendomi che sarei stato adatto, perchè facce da schiaffi come le mia non se ne vedevano mica poi tante in giro. Avevo sempre detto di no, perché di quelle rappresentazioni mi piaceva essere soltanto spettatore: le strade e i vicoli, quelle stesse strade e quegli stessi vicoli che avevi percorso centinaia di volte, come se fossero stati disegnati solo per te in quel preciso istante, ti guidavano dove volevano loro e tu non dovevi più preoccuparti della meta. In questo modo non ti restava che guardare, e scoprivi cose che c'erano sempre state, questo è sicuro, ma che tu non avevi mai visto, come l'insegna di una drogheria vecchia di ottant'anni, un affresco, una torre addirittura. E ti perdevi: credevi di conoscerle, ma improvvisamente quelle vie erano diventate un labirinto. Più che la rappresentazione in sé, era questo quello che mi piaceva del teatro itinerante. Naturalmente ad Andrea non lo avevo mai detto.

Mentre mi recavo all'appuntamento, pensavo che quella sera avessero scelto il posto perfetto per la loro messa in scena, perché mi stavo dirigendo verso il quartiere ebraico: case basse, al massimo tre piani, rosse o gialle, sempre asimmetriche, luci calde. E poi quei vicoli… Tortuosi da sempre, incarnavano per natura un labirinto davvero irresistibile. A quell'ora poi, sarebbero stati praticamente deserti. Un teatro davvero perfetto.

Era una sera di fine marzo e non faceva più freddo da qualche giorno. L'orologio segnava le 20.57 e all'incrocio tra via Marsala e vicolo Luretta non vedevo nessuno. Non c'era nessuno in tutta la via. Giunto all'angolo, due rumori sordi mi fecero voltare quasi distrattamente verso destra, verso vicolo Luretta: una persona, in tutta fretta, stava risalendo su uno scooter che, guidato da un altro, ripartiva velocemente rompendo per la seconda volta il silenzio in cui abitavano quei vicoli. All'inizio non capii: in fondo a quel viottolo, un uomo, chinato su se stesso, sembrava chiudere la sua bicicletta appoggiata al muro. Ma subito dopo fu tutto chiaro: con un movimento lentissimo, ancora lui, ormai accasciato, si adagiava completamente sotto quei portici, proprio lì, a meno di venti metri dai miei occhi. Silenzioso. Era stato assassinato.

Ancora non sapevo che si trattasse di Marco Biagi. Mentre scappavo, per un attimo alla mia mente capitò di pensare a quella gente intrappolata nelle pagine solcate poche ore prima. Lontana nello spazio e nel tempo, era ancora lì, e aspettava il momento giusto per attaccare. Ma solo per un attimo, però. Perché subito dopo un pensiero mi fulminò e mi sconvolse almeno quanto quello che avevo appena visto: una persona che conoscevo da sempre mi aveva offerto, gratuitamente, un biglietto in prima fila. Ed io, mio malgrado, mi ero felicemente accomodato.

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